Carta e inchiostro. Inchiostro e carta. Di quanta carta e di quanto inchiostro sono fatti i novanta titoli, romanzi e racconti, che compongono la gigantesca Comédie Humaine di Honoré de Balzac? E, soprattutto, se anche ormai ci ripetiamo che i libri nella loro forma fisica sono destinati a ridursi sempre più se non addirittura a sparire (e comunque, dell’opera di Balzac esiste un’edizione critica completa, online, che consente di confrontarne le versioni), possiamo solo farci un’idea di quanto inchiostro, e quanta carta, siano serviti per gli abbozzi, le prove di stampa, le correzioni e le riscritture balzachiane nell’arco di una carriera letteraria monumentale, conclusa a cinquantun anni nel 1850. Non se lo domanda esplicitamente Giannoli, nel suo Illusions perdues, ma certo mette in bella evidenza il tema, fino a farlo diventare quasi un motivo di interpunzione visiva. Inchiostro che scrive, definisce, macchia, inchiostro che infama, inchiostro per le tavole che illustrano le fake news e i feuilleton, inchiostro che cola, su un biglietto consegnato a mano sotto la pioggia, sul volto del protagonista scoperto e sbugiardato dal primo marito della sua amante, su quello stesso volto, tre anni dopo, pronto, come un foglio vuoto, a fare spazio a un capitolo nuovo.
Il film comincia appunto in maniera abbastanza fedele a Illusions perdues/romanzo, con Lucien Chardon (Benjamin Voisin) che prepara l’inchiostro su un torchio nella tipografia del cognato ad Angoulême, e che viene poco dopo introdotto nel circolo della sua mecenate, e amante, Louise de Bargeton (Cécile de France), con la sua raccolta di poesie, Les marguerites, fresca di una tiratura limitata, in mano. Lui declama una delle poesie, ma l’uditorio di provincia non è pronto, non distingue tra ragione e sentimento. Lucien, che vorrebbe essere chiamato col nome da nubile (e soprattutto da nobile) di sua madre, de Rubempré, è deciso a prendere il controllo del proprio destino abbandonando Angoulême e tentando la sorte a Parigi, illudendosi di avere dalla propria parte Louise e la di lei cugina, la marchesa d’Éspard (Jeanne Balibar), e magari anche il barone di Châtelet (André Marcon). Ma la società aristocratica parigina lo rigetta, per le sue origini plebee e, soprattutto, per la sua relazione con la baronessa: si ritrova solo, senza un soldo, affamato e umiliato e trova nella collaborazione ad alcuni dei tanti fogli satirici dell’epoca uno strumento di vendetta («vedrai nei suoi occhi la paura»), senza rendersi conto che la vendetta non gli agevolerà il tanto agognato riscatto sociale. È Étienne Lousteau (Vincent Lacoste) a introdurlo a questo universo d’inchiostro e carta; è sempre Lousteau a fare da Virgilio a Lucien attraverso la capitale, a metterlo faccia a faccia con Nathan (Xavier Dolan), altro scrittore di genio che, dapprima nemico, gli sarà vicino anche nella cattiva sorte.
Di fronte a un film come questo, adattato da Giannoli stesso, che vanta studi letterari prima di essere cineasta, ci si domanda, ma è davvero solo un automatismo la cui risposta è senza dubbio affermativa, se abbia ancora senso la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria, cercando magari di capire che direzione voglia prendere l’autore reinterpretando un testo, cosa voglia sottolineare. E si noterà allora che ha privilegiato e amplificato il libro centrale dei tre che compongono il romanzo, Un grande uomo di provincia a Parigi, ma, soprattutto, ha fatto vivere i personaggi di elementi che vengono da altri titoli del ciclo balzachiano: perché quasi tutte queste creature, nella loro versione d’inchiostro e carta, ricorrono più volte, e lo stesso Lucien è protagonista anche di Splendore e miserie delle cortigiane.
Nel “puttanesimo” generalizzato della società parigina della Restaurazione, dove un’opinione, una recensione, una claque si vendono e comprano con suprema agilità, assoluto cinismo e, soprattutto, con un gran rigirìo di soldi, banconote (inchiostro e carta, di nuovo), ci ricorda Giannoli, risiedono le radici del mondo contemporaneo, le origini della société du spectacle. E non sbaglieremmo di troppo se nella commedia umana che va in scena sui palchetti e nei foyer dei teatri più che sui palcoscenici volessimo riconoscere personaggi che rimandano per tipo e meschinità alla scorsesiana (e whartoniana) Età dell’innocenza.
E ancora alla nostra contemporaneità sembrano alludere le scene dove gli autori si flagellano a suon d’ingiurie davanti all’editore (analfabeta), Dauriat (Gérard Depardieu), come fossero dei dissing tra hip-hopper. E d’altronde è difficile, di fronte alla compravendita delle opinioni, non pensare al sistema vuoto e prezzolato degli influencer.
Ma poi, quante parabole di creativi ambiziosi si riflettono in quella di Lucien, devastato dai debiti, che finisce a fare il copywriter (quando ovviamente non si diceva ancora così) per la pubblicità della tal marca di huile de beauté e per la tal altra di parfum de linge? E al tempo stesso vediamo in questo declino il riflesso della Carriera di un libertino di Hogarth, che porta con sé il ricordo quasi “obbligato” di Barry Lyndon, un’altra epoca, un altro adattamento, eppure là come qui una dialettica implosa tra ragione e sentimento, tra lumi e romanticismo, tra rivoluzione e restaurazione. Un processo che si manifesta con sfumature mélo strazianti nella figura di Coralie (Salomé Dewaels), la compagna di Lucien sottratta al teatro di Boulevard, e a un anziano protettore, con l’ambizione di riscattarne la carriera e farne un’attrice tragica, che sottopone una Bérénice di Racine troppo moderna, interiorizzata, sensibile, a un pubblico che non è intenzionato a recepirla. E, se nelle sfumature melodrammatiche la musica ha un ruolo chiave, anche in quel reparto troviamo un gioco di ritorni al Settecento e accelerazioni romantiche.
Inchiostro e carta: Giannoli deve essere una di quelle persone che quando leggono un libro non hanno timore di sottolinearlo, annotarlo a penna. E qui si vede, ed è oltremodo necessario, perché un testo come quello balzachiano, offrendosi come opera-mondo, possa ancora parlare al pubblico, trovare un pubblico aperto a raccoglierne la modernità, sullo schermo: una pagina diversa un inchiostro differente.