Una donna entra in un negozio di abbigliamento di lusso, si guarda attorno nervosa, sfiora con le dita gli abiti che non può permettersi. Sceglie di provarne uno e si reca in camerino, accompagnata da una commessa cordiale. L’ondeggiante piano sequenza che apre Madeleine Collins cambia punto di vista e segue ora le attività della commessa. Un tonfo improvviso interrompe la sua routine: la donna in camerino è svenuta e ha battuto fortemente la testa. Dopo essersi sincerata delle sue condizioni, la commessa accompagna la malcapitata fuori dal negozio, con quest’ultima che scompare. Non la vedremo più: le urla improvvise dei passanti segnalano dal fuori campo una nuova – e fatale – caduta.
Sul singolare evento mostrato nell’incipit del film di Antoine Barraud non verrà fatta luce se non nei momenti conclusivi dell’opera. A partire dalla tensiva e criptica sequenza di apertura, il regista francese ci prepara però immediatamente a quello che sarà l’orizzonte espressivo del film, un racconto che fa dell’ambiguità la sua peculiarità fondante. Presto conosciamo la reale protagonista del film, Judith (Virginie Efira), il suo compagno Abdel (Quim Gutiérrez) e Ninon, la figlia di quest’ultimo. I tre vivono in Svizzera e conducono una vita apparentemente tranquilla, ma i segnali che indicano la natura artificiosa di questa relazione familiare diventano presto evidenti. Judith conduce infatti una doppia vita: oltre alla relazione con Abdel, la donna è sposata con un conduttore d’orchestra ed è madre di due figli.
Madeleine Collins esplora le incertezze e gli aspetti elusivi che spesso vengono a crearsi nei rapporti umani, affrontandoli attraverso lo sguardo duplice e frammentario della sua protagonista. Judith mente agli altri e a se stessa, convinta dell’eventuale possibilità di rimettere in equilibrio la sua vita senza mai affrontare veramente i problemi che stanno dietro le sue azioni. Nell’interfacciarsi con i figli e con Ninon vediamo, in particolare, due modi diversi di interpretare la genitorialità da parte della donna, con i primi che vengono platealmente ignorati (ed inspiegabilmente, almeno nei momenti iniziali) mentre la bambina viene trattata con cura e attenzione.
Mano a mano che i suoi traumi riaffiorano e si manifestano concretamente, lo spettatore si trova così a dover gestire la confusione identitaria della protagonista. Le domande sono tante: chi è realmente Judith? Perché ricorre all’alias Margot? E per quale motivo il titolo del film porta il nome di un personaggio secondario? Mentre le risposte a questi interrogativi prendono forma tra le pieghe dell’intreccio, veniamo accompagnati in un percorso che gioca apertamente con la mancanza di equilibrio e con i punti di rottura, sia nel racconto del tormento di Judith e della progressiva dissoluzione dei suoi rapporti familiari, sia nel centellinare le rivelazioni essenziali della trama.
Da questa prospettiva, Madeleine Collins è un dramma che da un lato si muove ai confini del thriller, ma dall’altro non attinge mai pienamente alle potenzialità del suo intrigo, preferendo lasciare al tentativo di introspezione umana il compito di sostenere l’edificio narrativo del film. Emerge così il limite più grande di un film che, proprio per la sua ambiguità strutturale, è costitutivamente imperfetto, con Barraud che tira il freno a mano in quei momenti in cui ci sarebbe invece bisogno di una spinta più incisiva e di un respiro più ampio per trasmettere a dovere la profonda crisi esistenziale di Judith.