Se paragonato a quello di altri maestri della renaissance hollywoodiana degli anni Settanta e Ottanta, il percorso del recentemente scomparso William Friedkin è, in fondo, il più contraddittorio. Da liberale e autore di uno straordinario documentario contro la pena di morte come The People vs. Paul Crump (1962), al giro di boa dell’età reaganiana il suo orientamento ideologico ha impresso una decisa sterzata verso posizioni decisamente meno progressiste. Lo mostra un film come Regole d’onore (2000) – che con The Caine Mutiny Court-Martial condivide la medesima visione dell’istituzione militare e della sovranità nazionale – o la lettura della sua autobiografia uscita in Italia per Bompiani con il titolo Il buio e la luce. La mia vita e i miei film. Il che non sposta di un millimetro il giudizio su un autore tra i più grandi del cinema americano del secondo Novecento, ma permette di inquadrare meglio la sua ultima opera, prodotta per Paramount+ con la collaborazione di Showtime.
All’origine c’è una pièce (1953) di Herman Wouk, basata sul suo romanzo L’ammutinamento del Caine da lui pubblicato due anni prima (adattato per lo schermo nel 1954 da Edward Dmytryk con Humphrey Bogart). Ma se il romanzo e il film di Dmytryk si concentravano sulla descrizione della vita a bordo del cacciamine Caine, sui comportamenti ai limiti della mitomania del capitano Queeg e sul suo scontro con l’equipaggio (in particolare l’imberbe marinaio Willis Keith), la pièce racconta invece esclusivamente il procedimento marziale contro l’ufficiale Steve Maryk (Jake Lacy, nel film), accusato di ammutinamento per aver esautorato Queeg (Kiefer Sutherland) dal comando durante un tifone che rischiò di mettere in serio pericolo sia la nave che il suo equipaggio. Difeso con riluttanza dall’avvocato Barney Greenwald (Jason Clarke), Maryk cessa subito di essere il fulcro del processo, che ben presto si trasforma in un lungo esame inquisitorio dei comportamenti dell’inadeguato Queeg e dei suoi deliri narcisistico-paranoidi.
Anche sceneggiatore, Friedkin sposta l’ambientazione ai giorni nostri (l’incidente avviene nel dicembre del 2022 al largo del Golfo Persico) e modifica il sesso del procuratore generale dell’accusa (qui interpretata da Monica Raymund), ma soprattutto alza il tono dell’inquisitoria retorico-patriottarda di Greenwald che chiude anche il testo originale, infarcendolo di un’ambigua retorica militarista non esente da accenti martirologici. È però l’unico grande difetto di questo courtroom drama, che trova un linguaggio sorprendentemente classico e dona nuova forza a una grammatica e a un linguaggio d’altri tempi. Basti pensare allo straordinario interrogatorio di Maryk, quasi interamente risolto con un unico primo piano, un momento che ha la purezza del cinema muto.
Quello che interessa a Friedkin, ovviamente, è – come in alcuni dei suoi capolavori – raccontare i limiti del concetto di verità, cancellando i fatti (non si potrà mai realmente sapere ciò che accade a bordo del Caine proprio perché non viene mai mostrato) ed espandendo a raggiera la rosa delle interpretazioni, delle ipotesi, delle suggestioni, della mascherature e delle illazioni. Per questo, rispetto a quanto fatto da Altman – che aveva già adattato il testo teatrale per la CBS nel 1988 – l’uso dei piani di reazioni è assai meno significativo: a contare, infatti, è come ogni testimonianza diventi il racconto di un’esperienza soggettiva e parziale. Non è un caso che le opinioni di persone estranee ai fatti (degli ingegneri come degli psicoanalisti) finiscano per risultare totalmente irrilevanti: da sempre, al centro del cinema dell’autore c’è una personale rilettura dell’individualismo americano per cui è il singolo l’unico responsabile delle sue decisioni e delle sue azioni, anche a rischio della propria autodistruzione (si veda, su tutti, un capolavoro come Il salario della paura).
Così, il rimpallo dialettico tra accusa e difesa, interrogatori e controinterrogatori non serve solo a moltiplicare il punto di vista sui fatti ma per mostrare, sotterraneamente, uno dei grandi temi che hanno attraversato la carriera del regista di Vivere e morire a Los Angeles: la consapevolezza del fallimento. Nel film, indipendentemente da esiti e condanne, non ci sono realmente vincitori e vinti perché, di fronte a una realtà che rimane inconoscibile, ciascuno finisce per doversi compromettere: chi, come Greenwald, anteponendo il dovere alle convinzioni (in altre parole, l’etica alla morale); chi, come Maryk, probabilmente rinunciando a grandi prospettive d’avanzamento di carriera; chi, come Queeg, subendo lo scorno della pubblica umiliazione. E se Altman faceva di Queeg un nevrotico che probabilmente sublimava la sua impotenza dietro l’ideologia virile del comando, Friedkin lo trasforma in un paranoico tormentato da un complesso persecutorio, figura altrettanto patetica ma forse meno tragica.
Più che per i dilemmi morali (in Wouk, il Caine era il teatro dello scontro tra i principi autoritari di Queeg e il liberalismo democratico dei suoi sottoposti: un tema assai sentito al termine del secondo conflitto mondiale), la vera forza del film, però, è nella sua straordinaria tenuta narrativa, in un montaggio che trasforma lo spazio ristretto dell’aula in cui si svolge il processo in una specie di arena gladiatoria, teatro di una competizione destinata – friedkinianamente – a non avere un reale vincitore (nemmeno il mellifluo tenente Thomas Keefer, che sfrutta l’onda lunga degli eventi per pubblicare un romanzo). Ed è proprio questo l’ultimo grande colpo d’ala di un regista che come pochi altri ha contribuito a riscrivere le regole del gioco, magnificando sempre la lotta del singolo contro se stesso e le sue ossessioni, contro il mondo e le sue leggi.