Concorso

Memory di Michel Franco

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Il cinema di Michel Franco si fonda da sempre sull’imperscrutabilità del male e del dolore. Un male e un dolore invisibili, moralmente e visivamente indistinguibili dal bene o dalla normalità, dispersi in una rappresentazione della vita così realistica da sfiorare il parossismo. La freddezza della messinscena, che si affida a piani medi e totali fissi e a primi piani di volti impassibili, rinuncia a far deflagrare le tensioni di ogni trama – da quella più violenta (Nuevo orden) a quella più impassibile (Las hijas de Abril, Sundown) o feroce (Después de Lucía) – e scade per questo molto spesso nella gratuità e nel cinismo, abbandonando i personaggi a uno sconforto e una desolazione senza via d’uscita.

Memory, secondo film del regista messicano negli Stati Uniti dopo Chronic, conferma un'idea di cinema ormai chiara – siamo in una New York anonima, nelle strade e negli appartamenti dove nasce la relazione fra Sylvia (Jessica Chastain), ex alcolizzata vittima di abusi sessuali, e Saul (Peter Sarsgaard), vedovo cinquantenne affetto da demenza senile – ma scarta in modo significativo rispetto al passato. Di diverso c’è la speranza che guida i protagonisti, il loro amore oltre il trauma, la malattia, la menzogna, il dolore.

Come sempre ogni cosa è incastrata nelle immagini, nella confezione curatissima ma piatta, nascosta agli occhi dello spettatore – al quale viene chiesta la pazienza di attendere la rivelazione del trauma, oltre i silenzi, i comportamenti inspiegabili e le resistenze – e degli stessi personaggi, espressione di una società malata di rimozione e ipocrisia sia nel trattare la malattia con vergogna (come il fratello di Saul, che accudisce il fratello segregandolo in casa), sia nel nascondere il male negando l'evidenza (come la madre di Sylvia, interpretata da Jessica Harper, che accusa la figlia di essersi inventata gli episodi di violenza subiti).

Franco non cambia nulla del suo cinema, come sempre raffredda le emozioni nell'estenuante equilibrio visivo ed emotivo delle sue storie. In Memory, poi, giocato sulla possibilità del dubbio o della bugia di fronte alla fragilità dei ricordi, l'incertezza sulle ragioni dei due protagonisti (Sylvia è stata davvero abusata o è una mitomane? Saul era davvero smemorato la sera in cui ha pedinato a lungo Sylvia?) crea un'atmosfera di diffidenza che getta un'ombra sull'autenticità del sentimento raccontato e riducendo al minimo ogni possibile forma di empatia e partecipazione.

Eppure, nonostante ciò, grazie ai dettagli di una trama che svela poco alla volta i suoi elementi (e anche grazie a un cast in stato di grazia), poco alla volta il cinismo sfocia in una visione della vita finalmemente aperta. La celebre A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum, ad esempio, che rima con l’Aria sulla quarta corda di Bach a cui è ispirata, apre la strada ai ricordi di Saul; l’opposizione tra silenzio e parola viene per una volta risolta in favore di quest’ultima, oltre la confessione solipsistica dei gruppi d’aiuto a cui Sylvia partecipa e grazie a una confessione (da parte di Olivia, la sorella di Sylvia, interpretata da Merritt Wever) che diventa risolutiva; infine, la presenza di una ragazzina, Anna, la figlia quindicenne di Sylvia, non conferma come di consueto la condanna moralista di una mondo (come succedeva in Después de Lucía o Sundown, dove le giovani generazioni erano peggiori di quelle vecchie), ma porta a un finale sospeso e per una volta lieto.

Il mondo è ancora immobile nel cinema di Michel Franco, ma per una volta, in Memory, dentro lo spazio fisso di un’inquadratura i suoi personaggi hanno cominciato a muoversi, forse a vivere.