Concorso

Trois amies di Emmanuel Mouret

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Emmanuel Mouret continua a raccontare, con la leggerezza elegante che lo contraddistingue, le infinite complicazioni della relazione amorosa. Come sempre si ragiona, si ride e ci si commuove intorno ai personaggi che la sua scrittura alleniana, raffinatissima ma mai artificiosa consegna ai corpi degli attori che evidentemente e incondizionatamente ama e guida cercando e trovando profonda sintonia. Alice, Joan e Rebecca sono le tre amiche del titolo, tre donne dalle fisicità e dai caratteri molto diversi ma molto unite: insegnante di geografia la prima (Camille Cottin), felicemente sposata senza figli con un uomo che sa di non amare alla follia, insegnante di inglese la seconda (India Hair), in crisi perché ha smesso di amare l’adorabile padre di sua figlia; insegnante precaria di storia dell’arte la terza (Sarà Forestier), aspirante artista dalla vita amorosa vivace e turbolenta. È proprio sulle differenze che si costruiscono i tre personaggi e danno spessore alla loro relazione necessaria e vitale, vero punto di riferimento nonostante le differenti interpretazioni dell’amicizia, della vita e naturalmente dell’amore. Tre donne attorno alle quali ruotano altrettanti uomini, Victor, Thomas e Eric (Vincent Macaigne, Damien Bonnard, Grégoire Ludig) più altri che entrano in scena come presenze transitorie, tutti a relazionarsi e a mettere in discussione continuamente la concezione dei sentimenti - e dunque il senso dell'esistenza -  che ognuna e ognuno di loro ha o crede di avere. 

È un altro tassello del mosaico narrativo che Mouret costruisce da sempre ma che ha trovato negli ultimi tre film la misura giusta - cinematografica e letteraria insieme - per ragionare sul desiderio, sul piacere, e sopratutto sul senso di colpa come gabbia del sentimento. Se dentro a Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait era il diario a funzionare da riferimento letterario e  in Una relazione passeggera era la forma della cronaca a strutturare il film, qui è l’espediente di un narratore esterno a restituire fin dal primo momento l’idea stessa della narrazione in forma di racconto. Un racconto che presto si vena di tragedia con il narratore che si trasforma in personaggio per poi uscire di scena drammaticamente e innescare nuove dinamiche psicologiche negli altri personaggi e di riflesso dello spettatore. Voce, corpo e fantasma, Vincent Macaigne, sodale irrinunciabile del regista, diventa suo malgrado il perno stesso delle vicende pur senza esserne il protagonista, come dichiara subito in apertura del film. 

Un costrutto articolato e stratificato in cui come sempre i personaggi sono anche lo spazio che occupano, quello della scuola, quello delle case vecchie e nuove, colorate e bianche, piene e vuote che si succedono nel film. È proprio la gioiosa complessità cui fa riferimento il titolo del libro scritto da Thomas con qualche successo a interessare Mouret; una complessità fatta di parole, di sguardi, di ferite, di scoperte, di sorprese, di delusioni e di decisioni e soprattutto di sentimenti messi in scena con la solita naturalezza da dialoghi perfetti per ritmo e sfumature, sempre venati di dolcezza e di amarezza, di una qualche ombra di viltà ma senza cattiveria, da alcune sottili cattiverie che pur si realizzano senza malizia. Sono le situazioni complicate e ritorte della vita che il regista (qui forse meno limpido con la macchina da presa che nei due titoli precedenti) racconta restando sempre in bilico tra il paradosso tragicomico e un disarmante senso di verità. Un cinema collaudato cui ci si abbandona godendo e ammirando il tocco del mestiere.