I principi del foro

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Sottogenere del crime movie anglosassone (sia britannico che americano), il legal-movie vanta opere e autori che sono diventati grandi classici letterari e cinematografici (ultimo, in ordine di tempo, il bellissimo Giurato n. 2 di Clint Eastwood). Il processo secondo il sistema giudiziario consuetudinario (quello dei paesi di lingua inglese, per intenderci) diventa, nelle mani di scrittori e registi capaci, una morality play ricca di intriganti spunti drammatici. Un solido, onesto autore di questo genere è senz'altro John Grisham, che ha spento da pochissimo settanta candeline. Da un suo romanzo è tratto La giuria (2003) di Gary Fleder, che fra i suoi molti meriti ci regala anche un robusto duello legale fra i vecchi leoni Dustin Hoffman e l'ahimè recentemente scomparso Gene Hackman. Ne parlò su «Cineforum» Simone Emiliani (n. 432, marzo 2004), in una Scheda che qui sottoponiamo all'attenzione della Corte e della Giuria.

 

 

«Cineforum» n. 432, marzo 2004

 

Scheda La giuria

La struttura violata del legal-movie

 

Simone Emiliani

 

Dagli anni 90, nel cinema statunitense, il nome di John Grisham è spesso associato al legal-movie. Dentro i suoi romanzi c’è spesso un impianto narrativo solido, apparentemente sicuro, che sembra richiedere una meccanica trasposizione dalla scrittura del romanzo a quella del film, con l’utilizzo frequente di un luogo/set come crocevia di destini esistenziali futuri, individuali e collettivi. Niente di più sbagliato. John Grisham è tra i romanzieri più pericolosi da portare sullo schermo. Per due motivi. Il primo, strettamente oggettivo, è che trattandosi di uno scrittore di successo, esistono una serie di lettori abituali pronti a rimarcare il minimo tradimento nella trasposizione filmica. Il secondo, invece, in un certo senso nega il primo motivo. È proprio dall’adattamento informe, quasi sul modello di quelle equivalenze di cui parlava Truffaut quando criticava, all’inizio degli anni 50 Bost e Aurenche, che nascono opere senza anima, schematiche e prevedibili (Il momento di uccidere di Joel Schumacher), oppure, nei casi migliori, oneste esercitazioni sul filone processuale come L’ultimo appello di James Foley e Conflitto di interessi di Robert Altman. Forse i registi che hanno approcciato meglio Grisham sono stati proprio Sydney Pollack con Il socio e Francis Ford Coppola con L’uomo della pioggia, nei quali hanno ricondotto la struttura narrativa dello scrittore a un cinema fortemente personale, nel cui impianto visivo si avverte la robusta dimensione politica del primo e la struggente classicità del secondo.

Tra John Grisham e il melodramma - In tutto questo discorso come si situano La giuria e un cineasta promettente ma discontinuo come Gary Fleder? In maniera sorprendentemente aperta e vibrante, dando vita a un’opera dal ritmo serrato e incalzante, senza per questo legarsi a quel “cinema di parola” che si esplicita poi soprattutto dentro le aule dei tribunali. Quello di Fleder è un cinema che tradisce Grisham a livello di spazi – il film è infatti ambientato a New Orleans, mentre il romanzo Runaway Jury a Biloxi, nel Mississippi – ma anche a livello di contenuti; se nel libro, infatti, il processo era contro una multinazionale del tabacco, nell’opera di Fleder sul banco degli imputanti c’è un’industria d’armi. Vedere in questo mutamento delle similitudini con Bowling a Columbine di Michael Moore ed Elephant di Gus Van Sant può però apparire un approccio quantomeno parziale. La giuria non è un film che si può avvicinare agli altri due per alcune similitudini contenutistiche. Rispetto alla forza documentaria di Moore e alla consistente rottura di equilibri di Van Sant, il film di Fleder si posiziona invece prevalentemente dentro i meccanismi del cinema di genere. Prevalentemente, ma non interamente. C’è un momento, infatti, in cui La giuria sembra improvvisamente frantumarsi, aprendo squarci visivi ed emozionali completamente imprevisti. Ciò avviene quando un uomo di Fitch si reca a casa della madre di Marlee e scopre che la sorella è stata uccisa mentre si trovava a scuola. In questo frangente alcuni hanno voluto sottolineare la somiglianza con Elephant. I flussi visivi di Van Sant, però, spesso senza stacchi di montaggio, sono continui e costanti. L’opera di Fleder si costruisce invece su frequenti controcampi che creano un felice rapporto tra ritmo e tensione.

Fin qui nulla di nuovo. Si sta infatti dentro un riuscito esempio di “film processuale”. La scena a casa della madre di Marlee invece è determinante perché rompe improvvisamente quell’equilibrio, rivelando squarci di una memoria, di un passato con un’intimità e una partecipazione sconvolgenti. È come se lo sguardo di Fleder facesse riprendere vita a quei volti nelle foto (la sorella di Marlee ma anche Marlee giovane), è come se quei personaggi, prima ambigui e ricattatori, acquistassero una nuova umanità. Non è un caso che da questo squarcio, rivedendolo retroattivamente, ri/cambia tutto il film. Da riuscita trasposizione di un romanzo di Grisham, La giuria si trasforma improvvisamente in un sorprendente e struggente melodramma corale, ossessivo e distruttivo come il cinema di Paul Thomas Anderson. Non è un caso che la pellicola di Fleder, adattata egregiamente da un quartetto di sceneggiatori composto dalla coppia Brian Koppelman-David Levien (che hanno diretto assieme Compagnie pericolose), e da Rick Cleveland e Matthew Chapman, si porti con sé quella continua instabilità cromatica, con la luce che vira spesso verso i toni neutri sia all’interno dell’aula del tribunale sia nelle strade di New Orleans, propria della fotografia di Robert Elswit, che ha collaborato con Anderson nei quattro lungometraggi che ha diretto. Ecco che così anche l’inizio, con le immagini della provvisoria felicità domestica nella famiglia del broker prima che questo venga ucciso, assume un’importanza decisiva. La giuria è certamente dentro la struttura lineare del legal-movie ma è soprattutto un film in cui il tema della morte è ricorrente, crepuscolare e dolente come in Cosa fare a Denver quando sei morto, a tutt’oggi, assieme a questo film, l’opera più bella, più pulsante del cinema di Fleder.

Con gli occhi addosso - Si può ripartire ancora dalla variazione più sensibile dal romanzo al film; l’industria sotto accusa non è una multinazionale del tabacco ma di armi. Possono esserci dietro probabilmente delle motivazioni di carattere produttivo, in quanto qualche anno fa è uscito un film immenso come Insider che trattava un argomento simile. Ora, la furia di Michael Mann è inimitabile e irraggiungibile. In La giuria però, come in Insider, si ha il sospetto di un altro sguardo persistente che sta addosso ai personaggi oltre a quello della macchina da presa. Se il protagonista di Insider, Jeffrey Wigand, il ricercatore licenziato dalla multinazionale del tabacco, è come se fosse continuamente spiato assieme alla sua famiglia, qui i giurati sono invece direttamente guardati e controllati attraverso i potenti mezzi visivi a disposizione del consulente di giurie Fitch. Vengono come inseguiti da uno sguardo onnipresente, che scruta e lascia emergere dettagli anche scottanti della loro vita privata.

Si ha come l’impressione che loro stessi siano i protagonisti di un qualsiasi telefilm senza neppure saperlo. La vita di Nick, soprattutto, interpretato da uno straordinario John Cusack (uno dei pochissimi attori della nuova generazione che sembra affidarsi a un istinto secondo il quale ogni battuta che pronuncia è come se gli appartenesse davvero), ma anche quella di altri giurati che vengono ricattati da Fitch, è seguita da telecamere che li controllano ventiquattr'ore su ventiquattro. Fitch per certi versi sta ai giurati (e soprattutto al giurato Nick), così come i registi-creatori di The Truman Show e EdTv stanno ai personaggi di Truman e di Ed. Fleder ricrea un set nel set. Le apparecchiature visive e sonore adottate per seguire i membri della giuria sono come quelle utilizzate sul set. Ecco quindi un altro, improvviso squarcio in La giuria, ancora tangente ma comunque esterno all’apparente solidità del legal-movie. Quindi l’opera di Fleder è come una provvisoria messa in atto non di una grande soap, ma di tante micro-soap in cui questi personaggi diventano protagonisti di uno spettacolo che possono vedere gli uomini che lavorano con Fitch e gli spettatori, ma del quale loro stessi sono ignari.

Ma lo “sguardo addosso” che si porta dietro La giuria rimanda alla forza e all’intensità di quel cinema di spionaggio Made in Usa degli anni 70, da Pakula (Uno squillo per l’ispettore Klute) a Pollack (I tre giorni del Condor). Come in queste due opere, le traiettorie sembrano continuamente spezzarsi, interrompersi, portando i personaggi in continui “luoghi di perdita”, infiniti punti di fuga. L’aula di tribunale non è più il luogo deputato di questo potenziale legal-movie. È soltanto uno dei suoi tanti set. New Orleans, come Memphis in Il socio (ancora Pollack) diventa, infatti, il principale e autentico labirinto, città dai due volti riconoscibile (nella presenza dei suoi elementi urbanistici come il Quartiere Francese) e nascosta, spazio di incroci provvisori come nella potente scena dell’incontro sul tram tra Marlee e Fitch, quando la ragazza dice al consulente della giuria il prezzo per comprarsi il verdetto, fatto di sguardi provvisori, di contatti/allontanamenti, di spostamenti continui dell’asse visivo, dalla vicinanza dello sguardo di Fitch sulla ragazza dentro il tram alla distanza, con l’uomo che continua a guardare Marlee anche dopo che è scesa dal mezzo.

Infine, anche dentro gli schemi del film processuale, La giuria opera continui ribaltamenti. Ispirato essenzialmente dal romanzo, il film non si concentra sulle fasi del processo ma soprattutto sulle figure dei giurati. Nel cinema statunitense, un’attenzione maggiore ai membri della giuria che diventano protagonisti si riscontra in alcune opere, tra cui il teso ed essenziale Vendetta di Mervyn LeRoy del 1937 e il trascurabile Il giurato di Brian Gibson. Ma è soprattutto a La parola ai giurati di Sidney Lumet – senza considerare il remake di William Friedkin del 1997 – che il film di Fleder si avvicina in modo impressionante, soprattutto nei momenti in cui i dodici uomini si trovano nella stanza per pronunciarsi sul verdetto. Nick in La giuria si trova, rispetto agli altri, spesso in una posizione destabilizzata come il giurato n. 8 Davis/Henry Fonda di La parola ai giurati. Da un punto di vista contenutistico, la fiducia nella legge, nella giustizia che c’era in La parola ai giurati sparisce completamente, rimpiazzata da un’ambiguità di fondo dettata dal fatto che nel processo non contano più i fatti ma soprattutto la capacità di manipolare il verdetto della giuria. Poi, rispetto al claustrofobico kammerspiel di Lumet, il film di Fleder frantuma in continuazione le barriere degli spazi, soprattutto quelle dei luoghi dell’aula di tribunale.

Il film è animato da un nervoso dinamismo, con il frequente utilizzo della macchina a mano e della steadicam per materializzare visivamente l’inseguimento persistente di uno sguardo su un corpo, provvisori raccordi di movimenti dentro New Orleans che poi si dissolvono. Inoltre, nelle scene dell’aula di tribunale, può accadere che in un’unica inquadratura i membri della giuria si possano trovare in primo piano, l’avvocato in campo medio e il giudice sullo sfondo, segno di una profonda metamorfosi di prospettive all’interno del legal-movie. La stessa aula è però anche il luogo di un epico scontro tra Gene Hackman e Dustin Hoffman. I due, quando erano alle prime armi e frequentavano i corsi alla Pasadena Playhouse all’inizio degli anni 60, erano amici e condividevano lo stesso appartamento. Curiosamente, prima di La giuria, in circa quarant’anni di carriera non si erano mai incrociati su nessun set. La fortuna di Fleder è di averli avuti nella loro forma migliore. Se Hackman, in questi ruoli ambigui, riesce a far emergere la cattiveria e il cinismo con una forza dirompente, Hoffman penetra dentro il ruolo dell’avvocato idealista con la metodologia da Actor's Studio ma anche con quell’energia dialettica che gli appartiene istintivamente. Il loro incontro/scontro diretto, dentro la toilette, è da antologia e soddisfa un’attesa simile a quella che aveva preceduto il testa a testa tra Robert De Niro e Al Pacino in Heat. Torna ancora Michael Mann. Probabilmente è un caso, probabilmente no. Ma forse è un’altra storia.