A vedere i film della Mostra di Venezia e a leggerne i commenti sui giornali e in rete, mi è venuta in mente una vecchia e polverosa questione, anzi una “querelle”. La “querelle des anciens et des modernes”, la disputa letteraria tra filoantichi e filo moderni che si sviluppò in Francia sul finire del Seicento. In realtà, il primo a lanciare la sfida fu il nostro Alessandro Tassoni, quello della Secchia rapita. Tassoni, all’inizio del Seicento, aveva posto il problema e aveva preso posizione a favore dei moderni.
La cosa proseguì senza clamori fino alla fine del secolo quando scoppiò in Francia la querelle vera e propria, con i classicisti alla riscossa. I filoantichi schieravano in attacco alcuni grossi nomi come Boileau, Racine, La Bruyère e La Fontaine. I modernisti avevano in formazione Perrault, Fontenelle, le Accademie, i gesuiti, il Journal des Savants e il Mercure Galant. I filomoderni sostenevano la necessità di una “letteratura francese”, chiara e razionale, contro una letteratura classicheggiante, imitativa e passatista.
Ricordate le cose come stavano allora e fatto presente che la storia si ripete più e più volte, veniamo alla Mostra. Dove si vedono ogni giorno film “antichi” e film “moderni”. I registi “antichi” costruiscono film con sceneggiature curate, scansioni narrative studiate, recitazione impostata, regia servizievole. Campione della tradizione è il molto classico (e molto applaudito) Philomena di Stephen Frears, sceneggiatura attori regia riso pianto tutto perfetto. E possiamo mettergli vicino Tracks di John Curran, film d’avventura, di viaggio, di paesaggi e di animali. O anche Parkland di Peter Landesman, ricostruzione dal basso dei giorni delle due uccisioni di J.F.K. e del suo assassino Lee Oswald. O Wolfskinder di Rick Ostermann, film di fuga, di guerra, di bambini. O Joe di David Gordon Green (nella foto).
Molti i film che si schierano, con maggiore o minor convinzione, dall’altra parte, quella dei “moderni”: Via Castellana Bandiera di Emma Dante (costrizioni di spazi, blocco narrativo, allargamenti di spazi), Die Frau des Polizisten di Philip Gröning (insistita frammentazione in capitoli, uso sistematico delle ellissi, tempi dilatati, tempi morti), Night Moves di Kelly Reichardt (atmosfera ipnotica, avanzamento monocorde), The Canyons di Paul Schrader (tono uniforme, accentuazione del senso di vuoto, silenzioso controcanto dei cinema abbandonati), Child of God di James Franco (recitazione eccitata, narrazione eccitata, regia eccitata), Tom à la ferme di Xavier Dolan (uso e riuso di luoghi melodrammatici, sobbalzi narrativi, personaggi fratturati) e anche il corto, gustosissimo e impertinente, Redemption di Miguel Gomes.
Non ci dovrebbe essere più nessuno oggi (che non siamo più sotto Luigi XIV) che si schiera o di qua o di là. Siamo filoclassici e filomoderni insieme. Possiamo amare Philomena (anche riconoscendogli una bella dose di faccia tosta e furberia) e Tom à la ferme (anche notando le forzature). Non ha più senso sottolineare che, siccome Philomena è stato molto applaudito, allora il pubblico penderebbe di più verso il “classicismo”.
Gli stessi spettatori ameranno James Franco, Emma Dante, Xavier Dolan e così via, magari non applaudendo tutti insieme tutti questi film ma scegliendo ciascuno un proprio campione “modernista”. La Mostra mostra. Film alla maniera antica e film alla maniera moderna. Spettatori e critici non si dividono (speriamo non si dividano più) lungo questa linea. Stanno tranquillamente di qua e di là. Si spostano seguendo un film e un altro e un altro. La “querelle des anciens et des modernes” ha fatto il suo tempo