Prendendo le mosse dal testo di un acclamato romanziere di thriller, Kiyoshi Kurosawa firma un’opera stratificata e snervante, basata quasi esclusivamente sul concetto dell’attrazione a distanza.
Il suo protagonista, l'ex detective Takakura – ritiratosi dopo un tragico confronto con un criminale ma incapace di resistere al richiamo del vecchio lavoro – non riesce infatti a fare a meno di subire il fascino (a tratti estremo) nei confronti dei serial killer, figure sfuggenti e misteriose che da sempre, seppur in maniera indiretta, gli hanno fornito occasioni e motivi per adoperarsi.
Il prologo del film, in quella che potrebbe sembrare una sequenza fine a se stessa, ribadisce sin dal principio questo basilare concetto, svelando quanto Takakura confidi nella posizione di vantaggio che il suo ruolo e la sua morale riescono a conferirgli rispetto a coloro cui dà la caccia. Kurosawa, definite le coordinate, estremizza il suo discorso attraverso un dramma che poco alla volta assume dimensioni sempre più cupe e gravi, raccontando di come un elemento esterno a un nucleo familiare sia in grado di attrarre e logorare l’animo di chi si arrocca su certezze apparentemente solide e invalicabili.
Sono poche le collusioni e gli scontri presenti nel film, pochi gli attimi concreti di un contatto (fisico prima ancora che emotivo) tra i vari personaggi. Ognuno vive nella propria bolla, convinto di essere al sicuro perché lontano da minacce evidenti. Ma sarà proprio questa la forza di un’antagonista camaleontico e subdolo, capace di strisciare nell’intimità personale di tutti abbattendo le convinzioni morali di ognuno (chi è il vero criminale? colui che preme il grilletto o chi sprona a farlo?), e soprattutto riuscendo a destabilizzare le certezze fondamentali di un individuo, legate alla propria identità.
Metafora calzante di tempi dominati dall’individualismo e da una cecità continua e logorante, Creepy rischia però di protrarsi più del dovuto, continuando a rincarare la dose e smorzando la tensione (e l’attenzione) dello spettatore in diversi frangenti. I continui cambi di prospettiva e la confusione palpabile non appena la vicenda entra nel vivo sono sicuramente funzionali e (perché no?) divertenti, utili per immedesimare lo spettatore nei panni disorientati del protagonista. Anche se una situazione asfissiante e angosciante come quella raccontata nel film avrebbe richiesto meno ossigeno di quanto in realtà conceda.