Il cinema di Lav Diaz non segue le regole quotidiane del mondo ma la logica del mito e dei sogni. Eppure è da sempre calato nel contesto vivo e sanguinante della storia delle Filippine.
In A Lullaby for the Sorrowful Mystery il sogno ridiscende fino all’origine delle stato filippino moderno, alla rivoluzione che a fine XIX secolo portò alla guerra contro gli spagnoli. È quasi sempre notte nel film, l’oscurità pervade ogni ambiente, il passato è un sonno a occhi aperti, una veglia ovattata e appesantita dal fumo dell’oppio. Anche nei momenti in cui l’ambientazione è diurna, l’onnipresente, rigogliosa vegetazione della foresta lascia al sole solamente qualche spiraglio. Lamine di luce lunghe e affilate invadono l’inquadratura dal fondo campo, focolari segno di distruzione stampano macchie bianche su tele grigie e nere; l’illuminazione chiaramente artificiale delle scene frantuma la cupezza di quadri stretti e ingombri di elementi naturali o di ornamenti architettonici. Soprattutto nella prima parte del film, la macchina da presa non si muove mai, i piani sono frontali, le architetture coloniali illuminate da fiaccole o lampioni creano geometrie precise e surreali. L’azione è lasciata fuori campo, i personaggi entrano dai lati destro e sinistro dell’inquadratura, il punto di vista è costretto e asfittico come in un film muto. E quando un intellettuale spagnolo tira in ballo la nuova invenzione dei fratelli Lumière, vista al Grand Café di Parigi e portata per la prima volta nelle Filippine (l’anno è il 1896), l’apparizione del cinematografo è quasi scontata: un’ombra nera invade lo schermo bianco, non si capisce se sia un’immagine impressa o una proiezione dal vero, e il pubblico ingenuo fugge spaventato. La storia, il mito e il sogno sono riuniti su quella superficie, che Lav Diaz trasforma in un caleidoscopio attraverso cui scrutare il passato, scovarne l’anima e svelarne l’inganno.
Il mondo di A Lullaby for the Sorrowful Mystery è come visto attraverso un collo di bottiglia, chiuso e soffocato, la Storia è condannata alla propria immutabilità. Ciò che il film racconta, è ciò che le cronache registrano: le violenze degli spagnoli, i saccheggi, gli incendi, gli stupri e gli omicidi nei villaggi insorti; le lotte interne al movimento rivoluzionario filippino, in particolare l’omicidio di Andres Bonifacio da parte degli uomini di Emilio Aguinaldo; la sopravvivenza di poveri diavoli travolti dal corso degli eventi e dall’impossibilità di fissare una verità storica certa e verificata. È chiaro come a Lav Diaz non interessino né le versione ufficiali né quelle apocrife degli eventi, quanto, piuttosto, una loro riappropriazione visiva e narrativa attraverso il cinema.
Nei suoi film la cronaca si fa storia popolare, racconto personale, addirittura pettegolezzo, talvolta confessione che redimi le colpe di un personaggio e di un popolo intero. Gli infiniti piani fissi in cui viene racconta la versione di un fatto – una delle tante versioni di una verità lasciata sempre fuori campo – costituiscono la parte fondamentale del racconto di A Lullaby for the Sorrowful Mystery, frantumano l’esperienza e trasportano il mondo rappresentato in una dimensione fiabesca e mitologica, quasi una superstizione selvatica. La foresta, le grotte, le rocche in cui i personaggi del film si muovono a fatica - per cercare il corpo di Andres Bonifacio, ad esempio, o perché cacciati delle loro case, o ancora per unirsi a una setta che invoca la redenzione del popolo filippino – sono spazi reali mutati dal cinema in terra magica.
Lav Diaz si addentra nella vegetazione primordiale della sua isola per costruire una mappa personale in cui orientarsi nel mondo e nella storia, per allestire un luogo palpitante di memoria e significato. La coincidenza fra la creazione dello stato Filippino e la nascita del cinematografo non può certo essere casuale: la redenzione di un popolo passa attraverso la reificazione delle sue sofferenze, e nel XX secolo il compito di reificare, di elevare il caos a simbolo o mito è toccato al cinema, forma contemporanea, onirica e spaventosa, dei racconti mitologici e orali di ogni tradizione popolare. Le dimensioni esagerate, eccessive e oltre ogni buon senso del cinema di Lav Diaz (questa volta siamo oltre le 8 ore di durata) derivano più che mai dal destino storico e ideale toccato al cinema nel ’900, macchina nata come gioco di luci e ombre e diventata depositaria di tradizioni e narrazioni. A Lullaby for the Sorrowful Mystery è un racconto orale per immagini, un tall tale fiabesco e violento che prende alcune figure storiche di grande importanza e le trasporta in uno scenario al fuori da ogni logica razionale e temporale.
È assai probabile che il vizio di Lav Diaz per le durate fluviali, per i quadri immobili e le scene di pianto e di lamento sia già sfociato nella maniera, o quanto meno nella ripetizione calcolata e prevedibile. Ma al di là del mito acritico di cui questo cineasta gode ormai da tempo, è altrettanto probabile che la scelta di un cinema estremo ed esigente sia una sorta di autocondanna consapevole: l’unico modo, forse, per togliere la storia delle Filippine dalla tirannia del tempo e ridonarle forza attraverso un discorso così illogico ed estenuante da essere – almeno sullo schermo, almeno durante le infinte ore di proiezione – autenticamente rivoluzionario.