Non parliamo di omaggi, o di citazioni, o di cortocircuiti intertestuali, non oggi, almeno, non al diciassettesimo lungometraggio dei fratelli Coen. Difficile dare retta ancora a una critica – sia favorevole, sia contraria – che guarda al loro cinema quale forma intellettuale e autosufficiente di applicazione ed esecuzione postmoderna del classico, l’ossequio al passato di un immaginario hollywoodiano contemporaneo, costruito prevalentemente sul gioco interno e sull’ammiccamento. Proviamo a cambiare registro.
Un film come Ave, Cesare!, che sembra in superficie fare di nuovo i conti con ossessioni coeniane note e con la storia del cinema, svela finalmente dei Coen un lato meno ideologico e più concreto. Non gli interrogativi sulla fede, non i contorcimenti inespugnabili della verità (ammesso che ce ne sia una, o nessuna, o centomila), e neppure l’inattendibilità di una rappresentazione verisimile del sacro, del divino e dell’assoluto (su cui comunque anche in questo caso si insiste): Ave, Cesare! mi pare più di tutto una sfida fra ideale e regime, fra ambizione e industria, il film dei Coen più onesto sul confronto dialettico tra illusione e concretezza, dove la discussione sull’espressione della realtà è finalmente subordinata alla realtà stessa. Lo smascheramento del credo – di ogni credo - quale dubbio in cui perdersi stavolta assume le misure di un contradditorio più “prosaico”: i Coen si svincolano dal concetto, dalle sue manifestazioni, dalla sua indeterminatezza e dal suo sistema, e scendono a patti con il capitale. Quasi un’eresia: Ave, Cesare! dimostra che non è importante il guadagno, ma che è il denaro a essere importante, come investimento nel mercato però anche come rispetto dello spettatore. Questa sì che è una novità, a Hollywood.
I Coen usano la loro poetica per affermare che, una volta che tutto è stato detto e fatto e girato e pensato, i soldi sono fondamentali quanto la dottrina. Mica male, per un film che pare mettere alla berlina il suo dietro le quinte. E invece Ave, Cesare! certifica la necessità di dare un senso all’impiego del denaro, non banalmente di condannarlo o di evidenziarne lo sperpero. In questo film vince la pragmatica sulla filosofia, la sostanza sulla congettura: Eddie Mannix (Josh Brolin), l’emissario della Capitol Pictures, che schiaffeggia la star Baird Whitlock (George Clooney), idealista per caso, riportandola così per terra, ai suoi doveri d’attore, è lo specchio imprenditoriale di un’idea di mestiere per cui la scienza deve cedere il passo alla determinatezza economica. Un paradosso? Hollywood che conta il proprio patrimonio e ne celebra l’esigenza? Un gesto politico ambiguo e, tutto sommato, egemone? Direi piuttosto un atto d’amore (e d’autore, non c’è dubbio) sul bisogno di confidare nel denaro quale linguaggio per dialogare e di cui non avere paura. È naturale che, in scenari di capitalismo e di globalizzazione, un simile pensiero metta quantomeno in imbarazzo: tuttavia i Coen, sfidando la retorica e l’etica, e sfidando noi stessi e la nostra educazione morale al denaro, smontano l’astrazione, il sogno e l’utopia per dare sostegno alla persona che del denaro ha una visione sostanziale, di strumento per la costruzione (di un mondo, di un immaginario, di cartapesta, di set, di green screen, di effetti speciali, di finzione), e non di arma per un profitto.
Allora sì che Ave, Cesare! è un film sul cinema, però come forma privilegiata per la destinazione dei quattrini, e non semplicemente come fabbrica dei sogni. Per i Coen, la fede e l’ideale sono sconfitti ai punti dall’industria, ma fatico a trovarvi del nichilismo, o la solita cupezza da fine del mondo e di ogni principio; mi sembra invece che Ave, Cesare! sia un film molto più sereno di tanto cinema coeniano del passato, un film per il quale il significato e il colore dei soldi non sono dei falsi miti da crocefiggere bensì dispositivi chiari e certi da usare - senza vergogna, senza offesa – per scopi forse “volgari” ma non criminali. Se siamo ancora qui a guardare i film, e spesso a crederci, qualcosa vorrà pur dire. Alla larga da qualunque discredito o dallo svelamento del trucco, Ave, Cesare! ci dice che l’opera d’ingegno è prima di tutto un prodotto messo a punto da un sistema di responsabilità retribuite, dove il lavoro è pagato e dove il denaro deve trovare la giusta proporzione. Altro che capricci ideologici, altro che religioni, fedeltà, devozioni! Il denaro è più sacro di un Cristo hollywoodiano e della sua conformità a un’immagine il più possibile corretta e imparziale (per non offendere nessuno): la laicità di Ave, Cesare! parte dai soldi e dal loro esercizio, e non c’è niente di male.