Inutile girarci intorno, il cinema di Mia Hansen-Løve è così. Tutto si può dire della regista francese – al suo quinto film – tranne che non faccia un cinema personale, identitario, suo. L’avenir sposta l’attenzione su questioni diverse dal passato e si pone interrogativi altri rispetto ai suoi precedenti lavori, ma è innegabile che quella che inizialmente sembrava una tendenza o una forma di racconto prevalente si è tramutata rapidamente in stile.
L’avenir racconta la storia di Nathalie (Isabelle Huppert), una donna sulla soglia dei sessant’anni, insegnante di filosofia, sposata e con due figli che non vivono più con i genitori. Nel giro di poco tempo, una serie ineluttabile di eventi inaspettati le sconvolge completamente la vita. Il marito la lascia per un’altra donna, l’anziana madre muore, la piccola casa editrice con cui pubblica non le rinnova il contratto e il suo vecchio studente e pupillo Fabien, dottorando in filosofia, interrompe gli studi, prende un’altra strada e si allontana sempre più da lei.
C’è come un sottile fil rouge che unisce i film di Mia Hansen-Løve. Se volessimo vederli come tappe di un percorso attraverso le età della vita osservato dalla prospettiva femminile, non sarebbe difficile pensare che, ogni volta, parli di una diversa fase della nostra esistenza. Tutto era iniziato con Tout est pardonné (2007) dove la storia di una coppia che si lascia si tramuta lentamente in quella della loro figlia seienne, che una volta adolescente, va in cerca del padre che non vede da anni. In Le père de mes enfants (2009) la diciottenne Clémence cerca allo stesso modo di trovare suo padre, un padre che però è appena morto in maniera inaspettata sconvolgendo la sua vita e quella di sua madre e sua sorella minore. E se la giovane Camille, protagonista di Un amour de jeunesse (2011) si porta dentro sino all’età adulta la travolgente e insopprimibile fiamma del primo amore, la Nathalie de L’avenir è forse il riflesso maturo di ognuna di loro. Perché ciò che da sempre sta più a cuore ad Hansen-Løve è raccontare il tempo attraverso la vita (e viceversa).
Come anche in Eden (2014) – l’unico nel quale la prospettiva è presa dal lato maschile – la narrazione procede per ellissi, il tempo che passa e i sedimenti che lascia sulle esistenze e sulle psicologie dei suoi personaggi sembrano conseguenze inevitabili, indelebili, impossibili da rimuovere. Anche in quest’ultimo film la protagonista è al centro di ogni inquadratura e il mondo che le sta intorno, sempre colto un po’ fuori fuoco e nel vorticoso incedere della camera a mano, sembra centrifugarla, sballottarla, confonderla. E se davvero Nathalie è idealmente l’incarnazione di ognuna delle protagoniste degli altri film, quello che la regista ci dice su di lei nel mostrarci la sua solitudine (che lei chiama libertà, come se avesse paura di definire le cose per quello che sono, proprio lei che insegna filosofia e cioè la forma di pensiero che ha fra i suoi scopi quello di trovare un nome alle cose) è che il suo ruolo è indefinibile. Smette d’improvviso di essere moglie, di essere madre, ma anche figlia. E smette di essere educatrice, di tramandare e insegnare quello che sa. Il suo ruolo borghese si smarrisce completamente, d’improvviso le sue ambizioni smettono di essere tali, il mondo le pare privo di motivazioni. E forse fa la scelta sbagliata, quella di accettare la propria condizione e di non cercare di cambiare il proprio destino finendo, anzi, per essere quello che tutti gli altri si aspettano che sia. Ovvero una donna sola, troppo vecchia per amare, per insegnare e per cercare di ritrovarsi, ma troppo giovane per andarsene per sempre. D'altra parte non c’è nulla di peggio che essere il prolungamento delle aspettative degli altri, sembra dire la regista, non c’è niente di peggio che accettare di scomparire perché la società – che ha bisogno di capire, di definire e di assegnare ruoli – decide che è così. Anche se il peggio di tutto questo forse è che la filosofia, nemmeno lei, aiuta a capirci qualcosa.