Edizione spartiacque (?). Le premesse c’erano tutte. Anno tondo (2025), anniversario significativo (Berlinale numero 75), cambio della guardia in cabina di regia (esce la coppia formata da Carlo Chatrian e Mariëtte Rissenbeek, subentra Tricia Tuttle). Eppure. Eppure semplicemente è troppo presto per fare un bilancio e provare a tracciare un solco. I festival cinematografici, soprattutto quelli di queste dimensioni e di questo peso, sono delle creature troppo complesse e delicate da vivisezionare sotto la lente d’ingrandimento senza tener conto di tutte le problematiche (politiche, economiche, contrattuali e sociali) che si portano appresso. Così, per il momento, quella di quest’anno è sembrata un’edizione un po’ anonima, “timida”. In realtà, potrebbe tranquillamente trattarsi di un nuovo innesto veicolato, semplicemente, in punta di piedi.
Berlino è una città ricca di contraddizioni, un ambiente che ha vissuto letteralmente sulla propria pelle la convivenza forzata di un bipolarismo storico senza precedenti. Il calderone creativo che il suo festival di cinema accoglie anno dopo anno rispecchia la voglia di continuare ad abbattere barriere e pregiudizi, formati e traiettorie. Sono tante, probabilmente persino troppe, le sezioni che compongono la Berlinale. Così come sono esorbitanti i numeri dei film portati sugli schermi durante i dieci giorni del Festival. È proprio in questo labirinto di immagini, però, che si concretizza sempre una delle pratiche più amate dalla cinefilia: la scoperta. Lasciandosi ispirare, abbandonare e cullare dalle scelte di un programma disorientante, l’unica maniera che si ha per tracciare i lineamenti del cinema contemporaneo che ci circonda e nel quale siamo immersi è proprio quella di accoglierlo, a nostra volta, senza pregiudizio, provando poi a unire i puntini per dare una forma più compiuta, o meglio meno indefinita, agli stimoli sopraggiunti.
Così, il profilo dei segni tracciati dai titoli presentati quest’anno sembra volerci raccontare di un mondo piccolissimo, un mondo sempre più omologato e rinchiuso in se stesso, dove le differenze minacciano di trasformarsi in crepe insanabili invece che risultare unicità arricchenti. Ecco allora il festival della contraddizione, della “convivenza forzata”, capace di prendere le mosse dalla minuscola stanza che fa da sfondo alle chiacchiere da bar del delizioso Blue Moon di Richard Linklater, per poi cercare una via di fuga verso altri mondi nel fantascientifico Mickey 17; così come viaggiare dalla tradizione sempre più remota dell’artigianato canoro portata in scena in Canone effimero dei gemelli De Serio, al disorientamento cognitivo contemporaneo di Kontinental ’25 diretto da Radu Jude. Abbiamo conosciuto personaggi sull’orlo di una crisi di nervi, ognuno alla ricerca del proprio equilibrio individuale, familiare, sociale. Proprio come i genitori di If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein e Mother’s Baby di Johanna Moder, o ancora il padre interpretato da Benedict Cumberbatch in The Thing with Feathers, di Dylan Southern.
Se il naufragar ci è dolce in questo mare, lo scopriremo solo tra qualche tempo. Ora, appunto, è troppo presto. Quel che è sicuro, tuttavia, è che come viene pronunciato in What Does that Nature Say to You, l’ultimo film di Hong Sang-soo presentato in concorso, “si dovrebbe imparare a vivere l’attimo, senza ambire alla conoscenza”. Così è stato in questa Berlinale. Un Festival disorientante e disomogeneo? Ben venga.