Variazione sul tema di Narciso. Ritratto di un uomo di grande talento, incredibilmente solo, che per tutta la vita non fa che ricrearsi una prigione di oggetti, persone specchio, un amore per un uomo infantile quanto lui, che però gli svela il suo lato masochista, e il legame col compagno di sempre, Pierre Bergé, che lo aiuta a costruirsi una prigione in cui soffocare (e al tempo stesso trionfare).
Tutte le persone vicine a Yves Saint Laurent sono differenti messe in scena di se stesso, di come vorrebbe essere, di come vorrebbe trasformarsi. Prende ispirazione da ciò che lo circonda, ma ciò che lo circonda è sempre e solo lui. A un certo punto, vedendo uno dei suoi abiti dichiara di trovarlo noioso, di essere stanco di rivedersi, costantemente riproposto.
D'altronde a far da controparte alla geniale creatività che lo porta a essere uno dei più importanti stilisti del '900, riconosciuto come “colui che ha rivoluzionato l'immagine della donna moderna”, c'è una sorta di passione per la ripetizione dell'identico spersonalizzato, come se il protagonista si trovasse tra due poli: i cani tutti della stessa razza, tutti con le stesse chiazze sul pelo e tutti con lo stesso nome; le modelle prive di identità che diventano un numero in successione; i ragazzi con cui si ritrova ad avere esperienze sessuali che definisce, in una lettera d'amore a Jacques, “corpi senz'anima, perchè l'anima sei tu” (parafrasi di un verso di Pier Paolo Pasolini, che però dedica alla madre: “ho un'infinita fame d'amore, dell'amore di corpi senza anima. Perchè l'anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”, Supplica a mia madre).
La casa mausoleo, con pezzi d'antiquariato e la collezione di dipinti, l'esistenza dedicata al lavoro e al tempo stesso agli eccessi, unica via di fuga dalla condizione di cattività in cui vive anche per mano di Pierre (piuttosto esplicito in questo senso il suo ruolo nel momento in cui il protagonista tenta di ucciderlo ritrovandosi letteralmente imprigionato nella sua abitazione).
Saint Laurent, che ha usato la strada solo come spunto per le sue creazione ma che non ha mai frequentato, vive in una specie di bolla, separato dalla realtà - come gli fa notare anche la madre: “quand'è l'ultima volta che sei stato a fare la spesa in un supermercato?” -, come se il suo mondo fosse il parco giochi di un bambino che però gioca da solo con tante bambole che gli assomigliano. Allora la fantasia è in grado di animare le bambole, di farle sembrare vere, ma al risveglio, il bambino si ritrova di nuovo solo con le bambole sparse sul pavimento e un po' di disordine attorno. Qualsiasi evento storico, qualsiasi accidente privato delle persone che lavorano con lui e che Yves frequenta, sono contrappuntate da sfilate di moda, colorate, eteree, lievi. Nessuna compassione per la dipendente che disperata piange e spiega i suoi guai ma che, una volta aiutata economicamente, viene allontanata. Nessun interesse per la morte di Ulrike Meinhof, episodio che invece potrebbe essere utile come tema per una sfilata.
Quando Yves Saint Laurent è ormai anziano e malato e la sua bellezza è sfiorita (straordinaria e crudele l'idea di farlo interpretare da Helmut Berger, che rivede se stesso nel pieno della giovinezza in un film alla tv), non gli resta che raccontare al cameriere gli episodi di un tempo andato e i successi che l'hanno accompagnato. Il salto temporale tra Yves nel fiore degli anni e l'uomo ormai vicino alla fine è talmente brusco da far pensare a Dorian Gray che, distrutto il ritratto che invecchiava al suo posto, si ritrova coi segni dell'abbruttimento sul corpo, facendo rinvenire accanto al se stasso morto, il dipinto tornato alla bellezza di un tempo.
Come nel romanzo di Oscar Wilde, perfetta parabola sul narcisismo, anche Saint Laurent vede evidenti su di sé la vecchiaia e la sregolatezza che l'hanno accompagnato tutta la vita, mentre le sue creazioni continuano a resistere come se non avessero tempo, lasciando che la bellezza sopravviva alla morte.