«Quando ho scoperto di essere incinta mi sembrava che tutti avessero un’opinione e una verità sulle cose giuste da fare. Mi sentivo indirizzata su una traiettoria che avevano deciso altri per me, frutto di quelle che mi sembravano consuetudini e pratiche standardizzate, e dalle scelte compiute dalle altre donne della mia famiglia. Mi sono chiesta se ci poteva essere un altro modo, più personale, di affrontare il totale sconvolgimento che stavo vivendo. È da questo mio “cercare” che nasce questo film». Le parole di Claudia Brignone, regista di Tempo d’attesa (2023, ma uscito in sala, con una distribuzione non regolare, quest’anno, a marzo), non potrebbero essere più precise. Perché è vero, ci sono tante maniere di affrontare l’arrivo di una nuova vita e anche tanti pregiudizi in merito; la regista, quindi, ha deciso di dedicare il suo terzo documentario alla donna che le ha consentito di vivere la maternità e il parto in maniera consapevole e naturale, non tanto come uno “spingere” quanto come un “assecondare” quello che il proprio corpo sta vivendo, sta provando (il film è dedicato alla figlia Anna). Ci sono dei casi, dice infatti Teresa De Pascale, ostetrica settantenne fondatrice di Terra Prena, l’associazione con cui segue le donne incinte durante la gravidanza, il parto e il periodo post parto, in cui si interviene, cioè quando si verificano degli imprevisti; altrimenti si può, o forse bisogna, lasciar andare, lasciare che la natura faccia il suo corso, e questo comporta il fatto che si possa partorire tranquillamente in casa, sotto l’occhio attento di una professionista.
Il film segue, appunto, quest’ostetrica, Teresa, nella sua attività quotidiana, in particolare nel gruppo di ascolto che coordina presso il parco di Capodimonte a Napoli, in cui le donne incinte hanno l’occasione di parlare e confrontarsi, di ricevere indicazioni e di fare un po’ di movimento. Sedute in cerchio, con i tempi che servono, guardandosi negli occhi e accogliendo le varie storie ed esperienze che vengono “portate” (molte hanno aspettato ad avere figli, qualcuna perché “non venivano”, una ha fatto ricorso alla fecondazione assistita, qualcuna preferisce l’ospedale, per la nascita, ma altre partoriscono in casa, due delle quali in acqua, una non fa in tempo ad arrivare all’ospedale e mette al mondo il figlio in auto, un’altra ha la bimba in terapia intensiva perché prematura…); per cui il film, come scrive Paola Casella su MyMovies, «entra in uno spazio intimo e misterioso e lo rischiara, lo apre e condivide», e questo è il suo pregio maggiore.
Nello sviscerare i vari aspetti legati alla maternità (il desiderio di materno ma anche la paura, sia del parto in sé che di quello che verrà dopo, in primo luogo l’ineluttabilità della situazione; la necessità, nell’attesa e al momento della nascita, di “ripulire l’animo” e, poi, di riconoscere e accettare la creatura che è arrivata; la messa in discussione di sé che diventare madri provoca; lo stretto rapporto tra parto e sessualità femminile; il ruolo dei “compagni”), il film fluisce lento e pregno di significato, stando sui volti ma anche sui corpi di queste donne, che diventano bellissimi anche nel momento, “cruento”, della nascita; c’è calore, c’è empatia in quello che si vede, e nel modo in cui viene filmato; e a livello sonoro siamo cullati dalle parole di queste persone e da quelle, rassicuranti e decise, dolci e accoglienti ma mai affettate, di Teresa, e dalla ninna nanna Pedro cresce, che viene musicata e che accompagna il gruppo di donne nell’ultima scena in cui sono con i figli, insieme. Oltre che dal suono del battito dei piccoli cuori, dallo stetoscopio fetale.
Il film, presentato al Torino Film Festival nel 2023, ha vinto il Premio Speciale della Giuria.