La lungimiranza della gallina

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Ci sono film che per ragioni fortuite, buone o meno, hanno il dono di durare anche perché la loro distribuzione non si è limitata a un preciso e circoscritto periodo, ma si è protratta nel tempo e per molti versi e congiunture è ancora in corso. E in questa categoria vantaggiosa e svantaggiata rientra a pieno titolo L’occhio della gallina di Antonietta De Lillo, per molti versi il suo film “chioccia”, e non soltanto in senso avicolo ma perché contiene come uova dorate tutti gli altri suoi lavori audiovisivi, l’inseparabile vita privata, familiare e artistica, le traversie burocratiche, giudiziarie e distributive che hanno accompagnato la complicata vicenda dell’emblematico Il resto di niente e per estensione lo stato delle cose infausto in cui versa il cinema italiano, dove vige tragicamente la regola sempre più insostenibile del “ciascuno per sé” e “io per tutti”, cioè non più “Dio”, per sopraggiunti limiti di egoismo e scarsa volontà comunitaria di condividere e rischiare assieme.

De Lillo in questo film si racconta e racconta per necessità, urgenza e demerito del contesto in cui opera da decenni indefessa, come la “gallina” che molto ricorda quella fotografata in bianco e nero da Letizia Battaglia su una tavola dismessa, poggiata su due secchi in riva al mare, con griglia per arrostire carne al fuoco e sedia a vista, tovaglioli mossi dal vento, piatti e bicchieri di plastica in precario equilibrio, bottiglie di birra vuote e sullo sfondo il bagnasciuga. Titolo: Sulla spiaggia dell’Arenella, 1986.

L’autrice de Il resto di niente più d’una “battaglia” ha dovuto dunque combattere e lo spettacolo generale che prepotente e allusivo emerge da L’occhio della gallina dimostra come l’arte di raccontarsi in prima persona oggi sia un esercizio virtuoso; specialmente se il sé funziona come maschera per gli altri, e l’autostima come strumento necessario per affermare diritti civili, artistici e d’autore congiunti. Esiste la censura, ci dice De Lillo, molto efficace, quando si manifesta in sottordine, infida, silenziosa. Recitava una poesia di Giuseppe Ungaretti, Ironia, in chiusura: «Nessuna violenza supera quella che ha aspetti silenziosi e freddi». Perciò la tenace “ironia” propria della regista napoletana capace di immedesimarsi senza mezze misure nella gallina, filmandola come alter ego referenziale (il “correlativo oggettivo”, appunto, in poesia), si manifesta con l’evidenza delle penne che attraverso l’iper-soggettività avicola ha rischiato e rischia: con il calvario impenitente delle carte bollate, dei gradi di giudizio, delle piattaforme e del silenzio della scompaginata società dello spettacolo delle immagini in movimento e delle istituzioni che dovrebbero tutelarne la paternità tanto quanto la visibilità e la circolazione, allorché chi fa cinema o televisione spesso si confonde con chi giudica, seleziona, ammette o meno.

Questo film di un anno fa, quindi destinato a ipotecare l’avvenire incerto del cinema televisivo italiano per intero a maggior ragione, usa la soggettività per schermare l’oggettività di una situazione estrema, cogente, cui serve rimediare finché possibile. I “cambiamenti climatici” in atto non soltanto planetari ma allegorici del comparto audiovisivo nazionale possono essere almeno affrontati con cognizione di causa, la causa De Lillo per Il resto di niente (titolo involontariamente lungimirante quanto la gallina), se non arrestati; vale a dire solo dando ragione alla sintomatica, reiterata, metamorfica gallina dalle sembianze umane e viceversa che in un film si è esposta, ci ha messo la faccia e, ripetiamo, rischiato: di (ri)metterci anche le allusive penne, ma conservando intatte le ali di cineasta indipendente e testarda.