È ancora possibile fare un film di guerra, oggi? Fare un film sulla guerra? Il problema del “cosa” e del “come” è questione ampiamente dibattuta. Però mai come in questo caso la guerra è stata così scontornata, lasciata ai margini, sullo sfondo. E mai come in questo caso la guerra, scontornata, ai margini, sullo sfondo e ai lati, è stata così protagonista, paradossalmente frontale. Mai la guerra ha subito al cinema una tale sproporzione, davanti alla quale non resta che chinare lo sguardo. O urlare.
L’esordio alla regia di László Nemes, già assistente di Béla Tarr, non è un war movie, eppure è se possibile il war movie definitivo, dopo il quale, oltre il quale, è difficile mostrare di più. Anzi, non mostrare: Nemes lascia l’orrore letteralmente fuori dal quadro, quello del formato 1.33:1. La guerra, nel suo film, c’è e si sente, eppure non si vede, tranne che in rari momenti (agghiaccianti, come la scena notturna della fossa).
In Saul fia, Auschwitz e la Shoah sono un’impressione prepotente, tanto che sembra il film più impressionistico mai filmato; eppure l’impressione della guerra è soltanto una prospettiva, perché Saul fia non mette in scena ma decide di mettere in prospettiva, esercitando il diritto del cinema stesso di dire ma di non illustrare, di credere ma di non riprodurre.
Il protagonista Saul è un ebreo che appartiene alla Sonderkommando, prigioniero obbligato all’assistenza dei nazisti nello sterminio. Il film gli è attaccato, addosso, mentre la cenere dei cadaveri, i corpi e i pezzi dei corpi, le urla, gli ordini impartiti, gli ordini eseguiti, i colpi di pistola, le esecuzioni, i forni, le operazioni, tutto accade nel fuori fuoco, fuori vista. In un campo di concentramento che ha le dinamiche e i rumori di una fabbrica, dove il sonoro è quello di un’industria assordante dell’orrore, e dove anche le lingue parlate – ebraico, tedesco, ungherese, francese ecc. – subiscono il caos del male, spezzettandosi, sgrammaticandosi, quasi per una paratassi dell’atrocità (ovvero, l’atroce e l’innominabile che si esprimono per frasi brevi, parole singole, concetti lapidari: la morte, che non ha bisogno di discorsi lunghi e complessi), non c’è niente di più spaventoso di ciò che non si vede, o che si vede lontano, o che si vede sfocato.
E mentre si cerca un’ultima dignità inavvicinabile, inseguendo un rituale che non può essere praticato perché l’unico rituale rimasto è quello di crepare senza preghiera e senza ottenere la misericordia divina, il cadavere di un bambino, per lo più avvolto in un lenzuolo, e per il quale Saul invoca il kaddish e una sepoltura, è il solo senso a cui dare ancora un nome e un'identità, anche se immaginati, anche se inventati dalla follia.
Un film da vedere con gli occhi giù, da ricordare con il ricordo di una violenza, da elaborare con lo sforzo di un’elaborazione del lutto più grande di ogni lutto, e quindi irraccontabile perché personale, proprio, nostro anche se universale. Saul fia è il miglior cinema d’autore (europeo, e da festival) contemporaneo possibile, e ha la stessa urgenza di La vergine dei sicari di Schroeder. War movie entrambi, ma dentro una guerra che è prima di ogni cosa la guerra fra l’uomo e ciò che non ha più.