«Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero. Ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo»: è una lezione di critica e una lezione di vita quella impartita da Anton Ego, raffinato recensore gastronomico che, in Ratatouille (Brad Bird, 2007), sembrava quasi riferirsi al modo in cui sono e sarebbero stati considerati i lungometraggi della Pixar Animation.
Perché la Pixar è stata (ed è) qualcosa di nuovo per cui valeva (e vale) la pena di rischiare (pensiamo al Leone d’oro alla carriera attribuito nel 2009 al patron John Lasseter) e per cui, forse, vale altrettanto la pena di continuare a scrivere, azzardare analisi, giudicare, recensire. Così come provare a spiegare perché un topolino che sogna di diventare chef, un robottino sperduto e in cerca di affetto, un anziano pronto a viaggiare a bordo della sua casa volante retta da palloncini, un gruppo di giocattoli parlanti e vari mostri più spaventati che spaventosi (ma potremmo proseguire ancora) siano stati protagonisti di vere e proprie opere d’arte cinematografiche, adatte non solo ai bambini ma a chiunque ami emozionarsi di fronte a un grande schermo. Non solo, però, con il cuore ma anche con la testa, perché la Pixar ha fatto Cinema all’ennesima potenza, da ammirare e da pensare.
E, dopo alcuni anni in cui questa magia sembrava in parte venuta meno, Inside Out ci fa ritrovare quelle sensazioni, quel senso di grandezza e di incredibile profondità, narrativa e visiva.
Perché dietro alle diatribe tra le cinque emozioni (Rabbia, Disgusto, Gioia, Tristezza, Paura), rappresentate simpaticamente nella testa di una bambina che si prepara a dire addio all’infanzia, c’è molto di più: c’è un viaggio esistenziale nella psiche umana, nei ricordi perduti e in quelli che, chissà perché, non vogliono proprio andar via dalla mente.
La giovanissima Riley, appena trasferitasi dal Minnesota a San Francisco per seguire il lavoro del padre, è in balia delle sue emozioni, della nostalgia del passato, della paura del presente e delle speranze per il futuro.
E se il percorso compiuto dalla ragazzina è una chiara metafora dei tanti momenti difficili che ognuno di noi attraversa nella vita, il regista Pete Docter lo racconta con un’infinita serie di trovate geniali e di personaggi pronti a entrare nella memoria collettiva: l’amico immaginario d’infanzia, il pagliaccio dell’incubo, i “pulitori” che cancellano i ricordi non più necessari.
Si ride (tantissimo) e si piange (altrettante volte), si rimane a bocca aperta dal poetico incipit fino ai divertentissimi titoli di coda (di cui la Pixar è sempre stata maestra, basti ricordare quelli di A Bug’s Life).
Il risultato, senza voler svelare troppo (in Italia arriverà soltanto a metà settembre), è un capolavoro visionario, profondissimo eppure in grado di farsi comprendere anche dai più piccoli. Perché, a volte, per raccontare le cose più complicate la strada migliore è quella più semplice. Paradossale? Forse. D’altronde Inside Out ci ricorda anche che il modo migliore per capire la realtà è usare la fantasia. O anche, in fondo, che senza la tristezza non si può essere davvero felici.