Anche il Giappone incorniciato e bucolico, modesto e idilliaco degli ultimi film di Kore-Eda, il Giappone dei ciliegi in fiore e delle stagioni che scorrono ancora naturali, con la pioggia e il sole, il vento e il freddo che passano e tornano senza pesare, come se ancora si potesse cogliere frontalmente il tempo e lo spazio, più di mezzo secolo dopo Ozu, con bene in mente, però, il ricordo degli scontri generazionali e delle ferite sopportate con malinconia; anche questo Giappone che potrebbe stare fuori dalla modernità e dentro un tempo tutto suo, a metà tra la nostalgia e l'eternità del passato, nonostante il rimando diretto proprio a Ozu, o magari a Naruse, e un'idea sofferta dei legami familiari sfaldati, modificati, stravolti, eppure fatti evolvere dalla violenza inconsapevole delle relazioni; anche questo Giappone che in fondo, sempre qui a Cannes, compare identico e ugualmente zuccheroso nell'ultimo e impresentabile film di Naomi Kawase, An, questo sì un lavoro spirituale e panico come una brossura di Expo 2015, in Our Little Sister di Kore-eda, al di là delle musichette e delle melensaggini ormai tipiche del regista, nonostante uno stile meno controllato che in altre occasioni, votato a una medietà e una normalità a rischio di appiattimento, ma forse ereditate dalla matrice grafica del fumetto da cui deriva, Umimachi Diary di Yoshida Akimi, nonostante, insomma, tutte le riserve di questo mondo e forse anche nonostante il leggero fastidio della carineria e del birignao, è in realtà - questo Giappone di famiglie distrutte, dimenticate, ricreate e distrutte un'altra volta - anche lui una terra desolata, non un Paese che affonda ancora le radici nelle tradizioni e nei costumi di un tempo bloccato, nei kimono estivi e nei fuochi d'artificio sul mare, nelle cerimonie funebri e nelle ricette della nonna, ma un mondo oltre la sua stessa fine, un mondo in cui non esiste più nulla se non la possibilità di reinventarsi tutto, una casa, un legame, una nuova esistenza, perché tutto il resto - il padre, la madre, l'amore, l'eredità, il retaggio - è perduto, o meglio dissolto in una realtà a cui partecipa il film stesso, piatta e irrapresentabile con i canoni del vecchio e del nuovo, del prima e del dopo, del ricordo o della rimozione.
Nessuno si tocca, in Our Little Sister, nessuno si bacia o sceglie veramente la propria vita: ci sono tre sorelle adulte senza padre e senza madre (o meglio, lui muore dopo averle abbandonate da anni, mentre lei c'è ma se ne è sempre fregata) che invitano a vivere con loro la sorellastra sedicenne, e insieme vanno a formare una famiglia ideale, dove nessuno litiga e nessuno si preoccupa delle questione economiche, fuori dalla realtà e per questo perfetta per essere elevata sommessamente, non a modello, ma a possibile ipotesi di scioglimento, di alternativa, di ridefinizione di condizioni esistenziali usurate e stanche. Non è nemmeno un matriarcato come quello ipotizzato da Mad Men: Fury Road, il mondo perfettamente quieto di Kore-Eda: è un altrove calato dentro un Giappone forse reale ma non per questo meno piatto, un mondo in primo piano dietro il quale brulica la vita nel suo classico squallore, tra tradimenti e abbandoni, rimpianti e rabbia, ma di cui nessuno sembra veramente più preoccuparsi.
Quasi niente succede, in Our Little Sister, nessuno esplode, nessuno rivendica, al massimo urla al vento il suo piccolo risentimento. Come in Mia madre di Moretti, la sola cosa che conti ancora, dopo una vita passata a sopportare e soffocare, oppure a sbagliare o girare a vuoto, è ciò che i morti si lasciano alle spalle e ciò che i vivi sanno raccogliere per proseguire in un modo o nell'altro la loro placida deriva: un vecchio sistema mai dimenticato di mettere le prugne sotto spirito o di cucinare il pesce al curry; la maniera corretta di muovere il braccio quando si va a pesca di carpe o un vestito appartenuto alla nonna. Contano gli oggetti, contano i frammenti da cogliere in un quadro senza più cornice, ripreso in costante e lievemente fastidioso movimento, ben lontano dalla fermezza dello sguardo a livello tatami; contano i racconti dei vivi sui morti, o al contrario conta la bontà dei vivi contro la rapacità dei vivi, dentro una realtà ostinatamente consolata e consolatoria, che in fondo, però, è la sola che ci possiamo permettere, come se nulla fosse vero al di là dell'eterno presente, e la morte, come tutto il resto, fosse un passaggio inutile.