Nella biografia di Wes Anderson c’è una cosa che non torna, ed è il luogo di nascita, Houston, Texas, la meno texana delle città del Texas, ma pur sempre Texas. E se Anderson non è esattamente figlio di vaccari – sua madre è archeologa, suo padre pubblicitario, i suoi fratelli uno fisico e l’altro artista – è pur sempre un ragazzo americano che dall’America profonda è arrivato a New York, a Parigi, al Museo storico di Vienna e ai grandi festival europei, all'India e al Giappone con il suo universo personalissimo e riconoscibilissimo, che ha come elemento di base l’appropriazione di una cultura altra, alta e bassa, amata e omaggiata, rifatta, rimodellata.
Con The French Dispatch, il suo ultimo film presentato in concorso a Cannes (in Italia arriverà l'11 novembre), raccolta di quattro episodi ispirati ad altrettanti articoli di un’immaginaria rivista americana realizzata in Europa, “The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun”, con sede nell’altrettanto immaginaria Ennui sur Blasé (in realtà è il “New Yorker”, e il film è un atto d’amore a quell’idea di giornalismo), Anderson ammette il debito di riconoscenza verso la cultura europea – e in particolare francese – tra gli anni ’50 e ’70 e lo fa come se fosse egli stesso uno Zelig dell’arte e del pensiero del ’900. Proietta il proprio desiderio di adattarsi a un patrimonio di storia, di racconti e di immagini con la sua inconfondibile forma cinematografica – curatissima e di maniera, tra tableau vivant, topografie inventate, grafiche, oggetti colorati, gusto vintage e inserti animati – che come in Grand Budapest Hotel si adatta anche a livello di formati agli immaginari che saccheggia, al cinema degli anni ’60, al noir di Simenon, ai fumetti di Hervé, alle atmosfere di Tati.
Nell’episodio The Rosenthaler Suite, storia di un carcerato che diventa un pittore espressionista astratto (Benicio Del Toro) acquistato a peso d’oro dai collezionisti americani, Anderson riassume in maniera folgorante l’idea di dislocamento e appropriazione indebita che segna un mondo inevitabilmente condannato all’inferiorità. L’affresco di una parete in cemento armato viene trasportato da una prigione francese al Kansas, in un museo modernista che sorge in un immenso campo di granturco: basta un movimento di macchina all'indietro, in un quadretto ovviamente artificioso e posticcio, a riassumere un secolo d'invidia e di saccheggi a colpi di assegni, i Cezanne nei musei privati di Philadelphia, i Cloisters medievali nei quartiere popolari nel nord di Manhattan.
La stessa distanza oggettiva invocata dalla giornalista americana Lucinda Krementz (Frances McDormand) mentre assiste al ’68 parigino (spostato a Ennui e da maggio a marzo), è in realtà una semplice e inutile dichiarazione d’intenti impossibile da mantenere, dal momento che per Anderson osservare e raccontare significa intromettersi, sostituirsi, e soprattutto collezionare, catalogare, raccogliere e poi ricreare fingendo di sbagliare tutto o quasi.
Nella struttura The French Dispatch imita il formato di una rivista, e non solo perché gli episodi corrispondono alle pagine di un numero: è parlato fitto come le parole di un articolo; è in buona parte in bianco e nero, salvo alcune parti a colori, come le pubblicazioni di un tempo; è raccontato a blocchi, o verrebbe da dire per colonne… Anderson è come il giornalista Roebuck Wright (interpretato da Jeffrey Wright e ispirato chiaramente a James Baldwin, altro scrittore americano che passò buona parte della sua vita in Europa), che nel quarto episodio racconta una storia sulla quale ha già scritto un articolo facendo ricorso alla sua “memoria tipografica”. L’intervistatore televisivo (Liev Schreiber) la chiama “memoria fotografica”, ma lui lo corregge: no, è memoria delle parole, sono ricordi parola per parola di qualcosa di cui è stato testimone ma di cui non poteva essere protagonista.
Ecco, The French Dispatch è un film parola per parola, l'espressione di una malinconia per qualcosa impossibile da vivere. Le sue immagini nascono dal testo scritto, sono subordinate ad altri universi, sono ricordi, reminiscenze, tentativi. Con il loro aspetto così carino e artificioso sono l'espressione, sì, di un artista compiaciuto, ma anche perseguitato da un senso di sopraffazione e frustrazione, come se l'amore totale per una cultura si trasformasse nella sua maschera ridicola.