Sono la forza e l’eccentricità femminili a guidare Jane Campion, la femme cinéma di Julie Bertuccelli, esattamente come hanno guidato, insieme all’aggressività e alla fragilità maschili, tutto il cinema della cineasta neozelandese: quasi un autoritratto in forma di ritratto, accompagnato solo dalle parole di Campion, che non si è mai sottratta a interviste, analisi, cenni biografici, né a un’accurata e sorridente descrizione degli ostacoli e dei pregiudizi cui dovevano (e ancora oggi spesso devono) sottostare le registe in un mondo e un lavoro prettamente maschili. Infatti, eccola subito a Cannes nel 2007, unica donna schierata tra i premiati con la Palma d’oro, che la osservano con un misto di imbarazzo e curiosità mentre parla della forza, la resistenza e la creatività femminili. E, a seguire, un montaggio veloce delle straordinarie donne dei suoi film, dominate dalla rossa, ricciuta, folle Janet Frame. Su questi volti s’innestano le foto di famiglia, il racconto dei suoi genitori (artisti), delle prime esperienze teatrali, dell’innamoramento per il super8 e dei primi cortometraggi.
Per lei e per i suoi coetanei collaboratori, un film funzionava se tutto stava dentro l’inquadratura; ma poi, piano piano, scoprì che poteva fare delle scelte, di immagini, dimensioni, focali, obiettivi. E, con Peel, che nel 1986 vince la Palma per il miglior cortometraggio, scopre che può togliere, buttare, rimontare. La cosa più sorprendente è la simpatia, la propensione alla risata, la franchezza con cui Campion si è sempre raccontata, e la lucidità con cui ha sempre descritto il suo approccio a storie, atmosfere, personaggi, la sua ammirazione per il lavoro degli attori, si tratti di Harvey Keitel o di Nicole Kidman, dai quali bisogna saper aspettare con pazienza che arrivi quel momento in cui “prendono il volo”. E la naturalezza con la quale parla del paternalismo del suo primo direttore della fotografia, quello di Sweetie, che portò la troupe tecnica nel punto in cui avrebbe messo lui la macchina da presa, in dissenso (come furono parecchi critici ciechi) con la potenza innovativa di quelle riprese estreme e inconsuete che cambiavano la faccia del cinema; il pudore con cui accenna alle sue dolorose vicende personali; la imperturbabile franchezza con cui analizza la sensualità prorompente dai suoi film, non solo Lezioni di piano e In the Cut (altra svista madornale quasi collettiva), ma tutti i suoi percorsi in un universo fatto di vibrazioni della pelle, di tocchi, ma anche di esplicite esplosioni erotiche.
Ma le parole di questa Campion che cambia taglio e colore di capelli nei vari momenti della sua vita acquistano il loro giusto, enorme peso proprio perché sono sottese e accompagnate dalle immagini, emozionanti, crude, sontuose, dei suoi film. Da questi volti che si e ci interrogano, dalle lacrime che riempiono appena gli occhi, dalle dita mozzate e i lembi di corpi frementi, dalla capacità di volare in alto su paesaggi sempre selvatici e di stringere su inquadrature ravvicinate ancora più vertiginose. Julie Bertuccelli mette insieme voce, volto e corpo cinematografico di un’autrice che è grandissima al di là e al di sopra della sua appartenenza di genere, ma forse proprio perché donna ha impresso nella pellicola aspetti inediti di maschile e femminile.