Lizzy (Michelle Williams) ha circa quarant’anni, vive nella periferia di Portland e fa la scultrice. Non ha particolari gratificazioni professionali e anche la sua vita privata appare piuttosto piatta. Abita da sola in un appartamento in affitto in cui non c’è mai l’acqua calda, ha un gatto, una padrona di casa – Jo, artista anche lei – che mal sopporta e nessun amico. È indifferente a tutto, scontrosa e per niente incline alla socialità. Arrotonda lavorando nella residenza per artisti gestita dalla madre con la quale va poco d’accordo mentre il padre, ex scultore affermato, è in pensione, separato dalla moglie e non molto interessato alla figlia. Il fratello invece ha dei seri problemi mentali e benché sembri essere in possesso di un incredibile talento artistico se ne sta tutto il giorno chiuso in casa cercando di contenere le sue crisi maniacali.
Per buona parte del tempo il film di Kelly Reichardt è letteralmente tutto qui. Coincide quasi completamente con la sinossi e non succede molto in più rispetto a quanto descritto. Fino a tre quarti non si vede altro che la protagonista impegnata nella routine quotidiana della propria vita. Reichardt si limita a mostrare sequenze ripetitive e ordinarie, all’interno delle quali la protagonista si muove come un fantasma, ciondolante, sciupata e identificabile in tutto e per tutto con i colori spenti degli abiti larghi, sformati e trasandati che indossa. Per mezzo dei quali si fonde alle cromie degli arredi e degli ambienti, altrettanto smorti, in cui si muove. L’unico momento che spezza la monotonia è quando una notte il gatto cattura un piccione e lo porta dentro casa: Lizzy sottrae l’uccello alle grinfie del felino ma disgustata – benché il volatile sia ferito – lo getta dalla finestra nel giardino sottostante. Il giorno dopo Jo salva l’animale e inizia a prendersene cura, chiedendo però poi a Lizzy di occuparsene. Dapprima la donna è riluttante, ma lentamente si affeziona a quell'essere fragile e lo accudisce fino alla guarigione.
In effetti se Showing Up finisse qui sarebbe difficile trovargli un senso, attribuirgli una lettura o un significato. D’accordo la metafora dell’uccello ferito che può (ma forse non vuole) tornare a volare. D’accordo le statuine di ceramica scolpite da Lizzy che raffigurano donne gracili e spaventate e rispecchiano la condizione esistenziale della donna. Ma sembra davvero tutto troppo semplice, banale, evidente per costruirci intorno un film.
Per fortuna però nel finale qualcosa cambia. La regista ricompone il racconto che aveva precedentemente smontato e nella lunga sequenza di chiusura – che mostra il vernissage in cui Lizzy espone i suoi ultimi lavori di fronte alla comunità artistica locale – mette per la prima volta tutti i personaggi insieme dentro lo stesso quadro. E allora i nodi vengono al pettine. Si capiscono i conflitti che affliggono la protagonista e emerge l’insanabile discordia familiare che è probabilmente all’origine di tutti i traumi. Lizzy sembra l’unica in grado – e costretta – a portarsi addosso le pene di una famiglia disfunzionale, disarmonica e scissa a causa dell’evidente inadeguatezza di genitori egoisti, narcisisti e estranei all’empatia di prendersi cura dei propri figli. E lei ci appare come una sopravvissuta o, in termini più ampi, come l’emblema di una generazione smarrita e sconclusionata, resa debole dal conflitto generazionale che la tormenta, incapace di emanciparsi dai propri traumi e di trovare il proprio ruolo nel mondo.
Dentro questa ricomposizione finale Lizzy, dopo l’ennesimo litigio con i genitori e l’ennesima resa all’inestricabilità delle proprie relazioni, sembra trovare un piccolo sollievo. O almeno la forza di capire che certe cose non cambiano e, nonostante tutto, bisogna accettarlo. Un messaggio per nulla rassicurante eppure perfettamente in linea con questo cinema fatto di materia evanescente, idee appena abbozzate e estetica mumblecore. Prendere o lasciare.