Stars at Noon di Claire Denis è un film non riuscito. Come si diceva qui già a proposito del precedente Avec amour et acharnement, presentato in concorso alla Berlinale di quest’anno, si vorrebbe poterlo difendere ma non bastano gli scampoli di sguardo à la Denis per riuscire nell’intento. La scrittura si sfrangia prestissimo, presa un po’ pretestuosamente dall’attualizzare all’oggi - al Covid, alle mascherine, ai disinfettanti - la spy story che lo scrittore Denis Jonhson ambientava nel Nicaragua sandinista degli anni Ottanta, mettendo al centro del suo romanzo la storia della giornalista americana Trish alle prese con la turbolenta situazione del Centro America dell’epoca e ai pericolosi legami tra i gruppi di potere locali, il governo degli Stati Uniti, i servizi segreti, gli investitori internazionali e la criminalità organizzata.
La narrazione però non si tiene, e nel film tutte le trame e le peregrinazioni, l’agitarsi indomito della sfuggente Trish (chi è davvero? Una giornalista? Una sbandata? Una millantatrice?) e di quello che un certo punto diventa il suo compagno di viaggio, l’uomo d’affari inglese Daniel, diventano puro corollario - e fin qui ci siamo - utile a spostare l’attenzione sul desiderio reciproco dei due. I corpi, quasi sempre sudati, le mutande verdi di lei che vanno e vengono, l’ossessione per procurasi lo shampoo di Trish e i completi bianchi di Daniel; l’alcool che continuamente i due assorbono, quasi fosse necessario allo stordimento richiesto dall’insostenibilità del clima, atmosferico e non solo. Denis li segue senza dare chiavi di accesso, sempre attaccata alla magrezza del corpo di lei, ai suoi occhioni blu sgranati a comando, alla conturbante silenziosità di lui, al loro abbandonarsi al desiderio. Ed è proprio attraverso il desdiderio che i due si aggrappano l’uno all’altra riuscendo ad affrontare gli sposamenti, a muoversi, a cercare di procurarsi i documenti per uscire dal paese e ad avere a che fare anche con la CIA.
Ma sembra di girare un po’ a vuoto, con gli immancabili Tindersticks a disegnare l’atmosfera sonora e ad accompagnare l’umidità che riempie le immagini avvolgendo i corpi dei due interpreti ai quali si affida il compito di costruire e trasmettere il disagio e il magnetismo di una situazione che non si afferra, che scivola, che si ritorce, alla quale non si sa come far fronte e allora si cerca di sgusciarci dentro. Come se del fardello che sembrano costretti a portarsi dietro, o meglio addosso, un peso di cui non viene mai detto nulla di esplicito ma che si fa palpabile nell’ostilità di tutto, fosse possibile spogliarsi solo nella nudità condivisa e complice dei corpi. Ma il problema principale è proprio qui: non c’è neppure un secondo in cui ai quei due si crede, né alla bellissima Margaret Qualley né, tanto meno, al biondo, imbambolato, Joe Alwyn, incapaci di sostenere l’intensità della performance, inverosimili tanto nella nevrosi quanto nel mistero, per lo più insopportabile lei, per lo più legnoso lui, mai convincenti, mai veri. E così il film - un po’ Denis, un po’ Safdie (e non stupisce che a un certo punto compaia Benny nei panni di un agente segreto) - finisce per dilatarsi vanamente e languire nell'afa.