Il film di Pablo Berger appare sin da subito come ibrido fluido di un’ironica evoluzione della commedia degli equivoci contaminata da stilemi del thriller e del cinema di suspense – elementi che, nel loro incontro, contribuiscono a creare un’atmosfera di complessiva assurdità.
Abracadabra ha un’anima doppia e mutevole come metamorfica è l’identità del personaggio su cui opera l’incantesimo del titolo. Tutto, nel film, pare avere un doppio – più o meno valido dell’originale – come l’esilarante riproduzione esatta della camera da letto della coppia scambista a partire da una pagina del catalogo “KILEA”.
Il doppio pare essere, se non necessario, perlomeno utile in un mondo di inetti, incapaci persino di svolgere l’unico ruolo che una stereotipizzazione comica al limite dell’assurdo assegna loro. Così, l’ipnotista è chiaramente impossibilitato ad affrontare le conseguenze dell’unico numero riuscito (per sbaglio), ed è costretto ad avvalersi dell’aiuto del “maestro”, che si rivela altrettanto inabile nel risolvere la situazione.
I personaggi sono intrappolati in una condizione di inadeguatezza dalla quale sembra difficile – se non impossibile – emanciparsi, quella stessa insicurezza cronica che porta la protagonista ad imitare il look di Madonna per il matrimonio che apre il film – e la figlia adolescente la esorta: “sei proprio uguale”.
In linea con gli individui semplici, ingenui e piattamente ridotti a una caratterizzazione povera dai pochi ed esasperati tratti salienti che il film ritrae, tutto il resto è altrettanto kitsch, relegato a un livello puramente superficiale, dove la magia è “abracadabra” e il motivetto scatenante di un assassino è il ballo del qua qua, dove un anziano moribondo riprende temporaneamente vita grazie alle mutande di Superman e dove l’incantesimo può avvenire solo dietro travestimento del “mago” – «hai l’eye-liner?», chiede prima del momento cruciale.
Eppure, l’unica via per trascendere questo microcosmo di superficialità e inidoneità è proprio l’ipnosi, connotata come il solo possibile medium di discesa verso una nuova e inesplorata profondità dell’essere. Un processo magico perché passibile di liberare i personaggi dalla trappola di un’ottusa apparenza, in un appuntamento inaspettato con l’inconscio, quello stesso – spaventoso – istinto primordiale che l’assassino incontra nelle proprie schizofreniche allucinazioni.
Sebbene travestita, ironicamente, ad assomigliare al resto dei personaggi, con abiti sgargianti – per non dare nell’occhio – la scimmia, visione che appare all’omicida e allo spettatore come indice e premonizione di una strage, è l’incarnazione di un impulso animale e sregolato. Lo stesso istinto che pare dominare sul terribilmente mal-educato Carlos, capace, nella propria ignorante sufficienza, di spezzare la solennità di un matrimonio (e del matrimonio in generale) inveendo contro una partita di calcio. E, paradossalmente, adeguato alle proprie mansioni di marito solo quando posseduto da un pazzo assassino.
È dunque uno spirito maligno che, per assurdo, e per contrasto, veste un ruolo di denuncia, palesando la disumanità di questi personaggi fantocci a partire dalla rivelazione di una loro maggiore inadeguatezza - rispetto al proprio essere di schizoide omicida.
La sua presenza, che rimane latente nel mondo di Abracadabra – il filmato della strage, la possessione di Carlos, il focolare intatto sin dopo il matricidio di decenni prima – è risolta non solo in un assurdo miglioramento della figura del marito – l’idealizzazione del partner perfetto – ma nell’infusione di una nuova consapevolezza in Carmen.
Nell’immensità della “stanza bianca” visitata durante la doppia ipnosi finale – quell’ambiente che si caratterizza come una sorta di inconscio collettivo – la moglie, liberata dalle catene di un ruolo che le sta stretto, è pronta ad affrontare quell’inedita (letterale) “profondità d’animo” e di intenti e finalmente capace di emanciparsi da un mondo tossico fatto di figure piatte e simulacri.