Molto spesso i grandi film donano una pista allo spettatore già nella prima scena. A fábrica de nada, in competizione ufficiale al Festival de Sevilla 2017, si apre con una coppia che sta facendo l’amore appassionatamente ma viene bruscamente interrotta da una telefonata che lascia attonito Zé, uno dei protagonisti del film, che abbandona il letto e si precipita al lavoro. La fabbrica nella quale lavora chiude senza preavviso. I costi in Portogallo sono eccessivi, meglio delocalizzarla altrove.
Cosa mostra dunque questa prima scena? Semplicemente che il lavoro (e soprattutto la sua perdita) invade la vita privata delle persone. Un altro film presentato quest’anno, Colo di Teresa Villaverde, affronta la disgregazione familiare a partire dalla crisi economica.
Ma A fábrica de nada si muove in maniera assai diversa. Il film di Villaverde è intimo, o meglio parte dal privato per fare un discorso universale, il film realizzato dal giovanissimo Pedro Pinho inizia con la presa di coscienza di un piccolo gruppo di operai che uniti, in maniera collettiva, decidono di occupare la fabbrica che li sta “dismettendo”. Tanto Colo è un’opera quasi priva di parole, fatta di pochissimi e scarni dialoghi, quanto A fábrica de nada è ricco di discussioni, scontri verbali, di una vera e propria dialettica che passa nel linguaggio ma al quale il linguaggio non è sufficiente, servono le azioni.
Ed è sul continuo scontro tra la realtà angosciante, soffocante, durissima e la finzione – un regista (interpretato da Daniele Incalcaterra) contatta gli operai perché vuole girare un documentario sulle fabbriche occupate – che si muove lo straordinario film di Pedro Pinho, probabilmente tra i migliori film realizzati sul potere mortifero (ci fosse ancora bisogno di ribadirlo) del capitalismo. Speculare e opposto andrebbe rivisto in questo senso Nocturama di Bernand Bonello, sguardo dichiaratamente borghese sul medesimo soggetto.
Ma non è l’unica dicotomia riscontrabile in quest’opera liberissima e coraggiosa dove non vengono mai date risposte ma tutto viene messo in discussione.
Sono ancora efficaci i metodi della sinistra radicale nella lotta politica in rapporto al cambiamento di scenario capitalista? È possibile far funzionare una fabbrica, autogestirla senza una struttura piramidale di potere e senza cadere nuovamente nella trappola del capitalismo? Come far coesistere in maniera coerente la teoria politica con i problemi quotidiani e pratici? E, ancora una volta, come far diventare azione la parola e renderla efficace?
A fábrica de nada è un film sulla crisi (economica) dalla quale si irradiano, quasi fosse un contagio, tutte le altre. Crisi personale e sentimentale (Zé e la compagna iniziano a avere problemi di coppia sempre più evidenti), crisi politica (le questioni poste qui sopra), crisi sociale (il welfare viene totalmente smantellato), crisi artistica (il regista non riesce a girare il suo film; Zé si rifugia nel suo gruppo punk più per sfogare la rabbia e la frustrazione che per altro). È anche un film aperto a ogni possibile affabulazione, a qualsiasi linguaggio (opera documentaristica e musical, dramma e commedia), un film “coerentemente” di un collettivo – João Matos, Leonor Noivo, Luisa Homem, Pedro Pinho, Tiago Hespanha – in cui compare buona parte di chi ha lavorato alla pellicola benché in ruoli diversi. Un film che non si chiude, non finisce in un certo senso, ma si interrompe con un’immagine interlocutoria. Gli operai lavorano in una fabbrica che in realtà non produce più nulla, in cui le macchine non possono che girare a vuoto. È il lavoro umano che produce il valore, non quello della macchina, come viene spiegato in maniera assai chiara dal regista quando parla di plusvalore, riprendendo ovviamente le parole di Marx.
In fondo è il capitalismo che gira a vuoto, il suo sistema di produzione assolutamente perverso. E allora i momenti di poesia all’interno di un luogo fatto di alienazione sono quelli in cui ci si permette di giocare a calcio a fianco dei macchinari, di danzare e cantare, di giocare a carte. Di rubare tempo al lavoro, che normalmente si mangia tutto il resto. Resistendo alla follia di considerarsi persone degne solo attraverso una professione, senza la quale tutto sembra perdere significato, come se il valore dell’uomo fosse esclusivamente un valore legato al suo potenziale lavorativo.
Il niente di una catena di montaggio che funziona senza produrre nulla si contrappone al niente in cui gli operai liberano il tempo normalmente impiegato nelle loro mansioni. E quel niente non è un vuoto. È “qualcosa”. O quanto meno è un inizio.