Il ciclo dedicato alla saga di Alien su Rai 4 prosegue questa sera alle 21:00 con Alien 3 di un giovane David Fincher, alla sua prima esperienza cinematografica (era il 1992). Emanuela Martini ne scrisse su Cineforum 320, confrontandolo con le due opere precedenti, di Scott e di Cameron. Come sempre, abbiamo selezionato alcuni passaggi.
L'ultimo viaggio della Nostromo
"Sei stato nella mia vita tanto a lungo che non ricordo nient'altro" (Ripley all'alieno in Alien).
Alien³ («Alien tre» o «Alien al cubo»?) è costato 50 milioni di dollari; all'uscita in America, ha incassato 27 milioni di dollari nella prima settimana; dopodiché, gli spettatori hanno cominciato a decrescere costantemente e irrimediabilmente. [...]
Che al pubblico un po' dozzinale e distratto che decreta gli incassi del cinema attuale Alien³ potesse non piacere era uno dei timori della 20th Century Fox, preoccupata soprattutto del finale del film. Ma, come sembra abbia detto uno scrittore hollywoodiano interpellato al proposito, «la compagnia era ormai incinta al 90%, per cui non le restava altro da fare che permettere a Fincher di arrivare fino in fondo». Il suicidio finale di Ripley, però, non è l'unico elemento insolito per il palato degli spettatori: anche l'ambientazione, tutta sotterranea e claustrofobica, non scherza, e la decapitazione a metà del film di quello che si suppone il co-protagonista maschile coglie tutti un po' di sorpresa. Persino gli effetti speciali sono tenuti in sordina, e la stessa creatura aliena ci è ormai talmente familiare da non stupire più. In pratica, gli spettatori sono corsi a vedere un film e se ne sono trovati davanti un altro. Quale film poi volessero vedere, se un horror spaziale (come il primo) o un action movie (come il secondo), è dubbio. [...] Fincher, allora, parte esattamente da dove ci aveva lasciati Cameron e si preoccupa, per prima cosa, di disfarlo; poi torna alla vecchia suggestione di Scott del «contagio», a più di dieci anni di distanza e avendo ben presenti la situazione e gli incubi attuali. Certo, David Fincher (27 anni, una quantità di videoclip e alla prima esperienza nel cinema) non ha la profondità e il magnifico senso dell'organizzazione spaziale e volumetrica di Scott, né il ritmo e l'istinto cinematografico di Cameron (che, dei tre, è il vero «animale da cinema»); la sua narrazione a volte è discontinua, i personaggi faticano a caratterizzarsi e non c'è praticamente nessuna grande invenzione visiva all'altezza dello scontro finale tra Ripley e l'alieno in Alien o della scoperta dell'immensa «covata» in Aliens. Però sa bene dove vuole arrivare, qual era il sospetto, il pericolo inevitabile di una serie nata dalla storia di Scott (che Ripley venisse prima o poi «ingravidata»), e ha un'idea precisa del futuro che ci stiamo preparando.
Fincher ha avuto l'intelligenza (oltre che di non porsi come un piatto confezionatore di sequels) di lavorare sul filo conduttore degli altri due film: non gli effetti speciali, non il viaggio nello spazio e l'avventura, ma ovviamente Ripley, della quale anche l'alieno, in tutte le sue manifestazioni proteiformi, è una funzione. [...] Spesso è stato sottolineato (e a ragione) che il primo Alien, uscito nel 1979, giocava anche sulle ansie e sulle incertezze messe allo scoperto da un decennio di femminismo e di attivismo omosessuale. Non per niente l'eroina era una donna, seppure altissima e androgina dentro la sua tuta; ma certamente una donna magnifica quando ne emergeva in mutandine e maglietta poco prima dello scontro finale. Dal pericolo della «gestazione» di mostri non era esente nessun genere, neppure gli androidi; e alla fine si salvavano soltanto la donna col suo gatto. D'altra parte, che Scott sia un regista affascinato dall'annullarsi dei confini tra le differenze (di genere, sesso e razza) e dalla forza femminile (oltre che dalle donne molto alte) è dimostrato sia dalla squadra di replicanti di Blade Runner (e, in termini più «filosofici» dai duellanti) sia da Thelma e Louise. [...]
[...] Quello della famiglia è un concetto che ritorna ossessivamente nel film di Cameron, esattamente come l'immagine della madre armata e aggressiva passa dalla Linda Hamilton di Terminator (1984) alla Ripley di Aliens (1986). D'altra parte, tutto lo scontro è tra madri: anche l'alieno è un'imponente regina, circondata dai suoi guerrieri. [...] Bishop, una volta riconquistata la fiducia di Ripley agli androidi, diventa una sorta di tutore/consigliere elettronico; la bambina, catturata con la rapidità pacata e persuasiva che occorre per catturare i gatti, percepisce immediatamente la carica materna e protettiva di Ripley; la madre civile scende nelle viscere della terra a sconfiggere la madre arcaica, divoratrice. Il ritorno a casa, questa volta, non è solitario, ma ricco di presenze amiche. «Posso sognare?», chiede Newt prima di essere immersa nell'iper-sonno. «Credo che possiamo sognare tutti per tutto il viaggio», risponde Ripley sistemandosi di fianco a lei. Ma sulla Nostromo, secondo Fincher, si fanno dei gran brutti sogni. Le primissime inquadrature del suo film ci mostrano una presenza indistinta che percorre l'astronave intorno alle figure addormentate. [...]
Il luogo, certamente l'elemento più angosciante e più caratterizzante del film, è un incubo nero, interminabile e senza via di uscita. Filtra liquidi, coi quali si mimetizza la bava vischiosa dell'alieno, come le peggiori segrete del romanzo gotico o. come le ossessioni più fisiche del film di Tarkowski. Ricorda le gallerie concentriche nelle quali abitano i Cenobiti dei romanzi e dei film di Clive Barker, il ventre umido della Los Angeles di Blade Runner, gli anfratti putridi di 1997 Fuga da New York (non per niente, Walter Hill è, come sempre, tra gli autori del soggetto). [...]Come ha scritto Amy Taubin, sottolineando che Alien senza nessun omaggio o citazione specifici rimanda all'intero immaginario cinematografico legato alle prigioni, ai cimiteri, agli obitori, ai campi di concentramento, alla metropolitana di New York, ai manicomi «questa è la fine dell'era industriale, che è anche l'era del cinema, la fine del piacere e della sgradevolezza la fine del mondo come lo conosciamo». Fury 161 è la versione millenaristica del regno del Pinguino dell'ultimo Batman, mondo primordiale di oscurità e orgoglio marginale.
Ripley, sola come l'aveva voluta Scott e rasata a zero come la Giovanna d'Arco di Dreyer (iconografia che certamente attrice e regista hanno avuto in mente), forse per la prima volta è tra “pari", in solitudine, differenza e (alla loro maniera) purezza, e per la prima volta nella trilogia fa l'amore con un uomo, il dottor Clemons di Charles Dance, contrassegnato anche lui da quel «chiarore» di lineamenti che ha sempre caratterizzato la protagonista e che indicava Newt e Bishop come simili. La pausa dura un attimo; poi Clemons viene decapitato dall'alieno e Ripley si ritrova depositaria della condanna e della salvezza di un mondo che è già il peggiore di quelli possibili, sempre in fuga dalla Compagnia che domina l'universo e che come ultimo, atroce inganno, le si presenta col volto del buon androide Bishop, modellato dallo scienziato diabolico esattamente uguale a se stesso. «Potrai avere una vita tua, un bambino ... fidati di noi», le sussurra il Bishop umano per convincerla a partorire per loro l'alieno. L'alleato Dillon che avrebbe dovuto ucciderla in caso di pericolo estremo, ormai è già morto. E a Ripley eroina magnifica e tristissima di un terzo millennio disperato, non resta altro che tuffarsi all'indietro nelle fiamme, stringendo contro di sé l'alieno che nasce durante il volo, in un gesto che è contemporaneamente di imprigionamento e di estrema protezione materna. Il suo volo è esattamente il contrario di quello che le aveva fatto compiere Cameron, facendola risalire con Newt inseguita dalle fiamme; ma probabilmente non è tanto distante da quello che avrebbe ipotizzato Scott.