Questa sera, su Iris, alle ore 21 andrà in onda Argo. Film del 2012 diretto e interpretato da Ben Affleck, vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali tra i quali l'Oscar a miglior film. Su Cineofum 520 (numero acquistabile qui) pubblicammo una recensione scritta da Tina Porcelli, ne riportiamo qui sotto alcuni estratti.
Ben Affleck […] è riuscito nell’impresa più ambita per un autore. Azzeccare la terza opera. L’esordio a volte è frutto di fortuna, il secondo film può essere un incidente di percorso nel bene o nel male, ma il terzo è la conferma del valore di un regista. […] Affleck sa il fatto suo e d’altronde, tra i suoi registi preferiti, spicca un nome che da lui non ti aspetteresti mai: Jean Renoir. Del quale egli si sforza di riprodurre la profonda umanità della narrazione, quel suo mettere sempre al centro l’essere umano e il sentimento di connessione degli uni con gli altri, le relazioni con la famiglia e le persone amate, i valori, persino un po’ anacronistici, di lealtà e generosa solidarietà. E di Renoir, mi pare naturale aggiungere, Affleck cerca anche di riprodurre quell’essere in bilico tra realtà e finzione, la stuzzicante e contraddittoria coesistenza dell’ancoraggio alla tradizione, da una parte, e lo slancio progressista dall’altra. Non è certo casuale se, in tutti e tre i film di Affleck, la storia personale del protagonista s’intreccia alle vicende principali della narrazione e, nel caso di Argo, è proprio durante una telefonata con il figlio che affiora nell’agente Mendez l’idea vincente per la sua missione.
In fondo il progetto “Argo”, il nome in codice del finto film che non vedrà mai la luce, altro non è che una grande illusione, come se la menzogna vivesse di vita propria. Un titolo che deriva dalla parola d’ordine utilizzata dalle reclute della CIA, prescelto anche per la simbolica connotazione mitologica che spesso si ritrova nelle storie di fantascienza, e perfettamente calzante a una vicenda con una patina mediorientale. La premessa ideale di un’operazione di intelligence sotto copertura è che deve essere troppo assurda da risultare inventata e impossibile da verificare. Ma, soprattutto, deve individuare a priori chi è il proprio pubblico e convincerlo. In questo caso si tratta dei fondamentalisti iraniani, sospettosi e attenti a ogni segnale contraddittorio, per cui è meglio che la storia risulti confusa e ammantata da un astruso gergo intellettuale. Fondata su due piedi una finta casa di produzione (la Studio Six Productions, dal numero dei fuggiaschi da esfiltrare), il futuro film viene presentato a Hollywood in pompa magna e lustrini grazie alla copertura pubblicitaria delle maggiori riviste di settore.
Tre mondi (Iran, Hollywood e Washington), tre stili di ripresa differenti. […] la demarcazione delle storie è supportata da differenti estetiche visive. Dal realismo documentario dell’assalto all’ambasciata (c’è anche lo stesso Affleck, mescolato ai manifestanti, a riprendere con il formato Super8 dei filmini amatoriali anni Settanta) ai movimenti netti della Stedicam nella CIA, fino allo scintillio apparente di una Hollywood in declino. In quest’ultima sezione, si lavora per accentuare quella “sensazione del vetro”, propria di un mondo falso e ovattato, tramite l’utilizzo insistente dello zoom, talvolta combinato alla carrellata. Insomma, per quanto affermi di orientarsi alla confezione di un prodotto “di mercato”, Affleck si conferma fin troppo attento a tutti gli aspetti del manufatto. Il suo ricercato stile visivo è frutto di ingegnosa e meditata perizia che poggia su una sofisticata ricerca dei collaboratori, prescelti tra quelli dei registi che stima di più […] L’imitazione come aspirazione a migliorarsi. […]
Con Argo, Affleck firma un magnifico lavoro di equilibrismo della regia, dove l’alternanza dei livelli narrativi, tanto cara a Renoir, si amplifica a volte anche nella contrapposizione duale dello spazio. Si vedano per esempio le sequenze iniziali ambientate a Teheran, dove il silenzio surreale e la calma apparente delle attività che continuano come se nulla fosse dentro l’ambasciata, contrastano con la folla inferocita che si ammassa premendo sulla cancellata all’esterno. E, ancora, la contaminazione dei due registri: la tensione emotiva del thriller e la leggerezza della commedia pervasa di humour, che spesso si inseguono e si sovrappongono.
Il centro strutturale di Argo risiede nell’assiduo e destabilizzante sfasamento dei piani, che giunge all’apice nel dualismo tra la realtà e la sua rappresentazione fittizia, riecheggiato nei tanti apparecchi televisivi disseminati un po’ ovunque nelle inquadrature, a ricordarci la regola del gioco, la bizzarria della vita reale che si mescola alle avventure che scorrono sullo schermo. Perché, come diceva Jean Renoir, il sincronismo è il segreto della vita e la maggior parte dei drammi, non solo storici ma anche quotidiani, scaturiscono proprio dall’impossibilità di fare coincidere le temporalità multiple delle situazioni in perenne evoluzione. E il nome del finto film per convincere gli iraniani – un progetto di fantascienza e di fantascientifica realizzazione – è in fondo lo stesso del titolo del film che noi spettatori stiamo guardando.