Babel, film del 2006 di Iñárritu, sarà trasmesso questa sera, martedì 4 luglio, su Rai Movie alle 22.5o. Per l'occasione, riproponiamo la recensione che uno storico collaboratore della rivista, il direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera, scrisse sul n. 456 di Cineforum all'indomani della presentazione del film al Festival di Cannes.
Singolare il destino critico del messicano Iñárritu. Dopo l’esordio di Amores perros, che pochi hanno visto ma che bastò a far nascere il culto di un autore venuto dal nulla, l’opera successiva parve l’involontaria conferma della spietata legge del secondo film. Anzi, per dirla proprio tutta, l’accoglienza al festival di Venezia fu pessima. Probabilmente pochi di coloro che hanno storto il naso di fronte a Babel ricordano che anche 21 grammi fu stroncato con ferocia sospetta. Anche se poi, (quasi) tutti si rimangiarono le male parole (capita, capita…) quando il film uscì nelle sale e vi rimase un tempo insolitamente lungo per un film indipendente, per quanto battente bandiera americana.
Probabilmente, succederà la stessa cosa a Babel, che non ha convinto quasi nessuno a Cannes, salvo la giuria che gli ha assegnato il premio per la miglior regia. Pochi sembrano propensi a perdonare a Iñárritu il ricorso – per la terza volta – a una struttura a incastri, che mette in scena quattro vicende dislocate questa volta in altrettanti Paesi del mondo (Marocco, Stati Uniti, Messico e Giappone), e destinate a rivelarsi intimamente connesse. Come nei film precedenti, il filo rosso che salda il destino dei personaggi in un unico nucleo di sofferenza è il destino di dolore e solitudine al quale nessuno sembra potersi sottrarre. Anche se il finale, pur non essendo consolatorio, lascia aperta la porta della salvezza attraverso il difficile riscatto dell’amore e della comprensione reciproca.
Ora, ci sono due modi per valutare questa nuova variazione sul tema: ritenere, come molti, che si tratti di un estenuato esercizio accademico, una disonesta operazione di cosmesi che maschera il vuoto di pneumatico di storie meccaniche e poco interessanti. O considerare Iñárritu qualcosa di più che semplice cineasta capace di virtuosismi narrativi e stilistici: uno che magari gira sempre lo stesso film (come una buona parte degli autori che amiamo), ma che sa coniugare un cinema personale con le ragioni dello spettacolo popolare, nel senso più nobile del termine – una lezione che i registi americani sembrano aver ormai disappreso. Personalmente, propendo per la seconda ipotesi. Si pensi, ad esempio, come sa dirigere gli attori (persino Brad Pitt appare meno legnoso e monocorde del solito) o passare dall’euforia contagiosa dell’episodio messicano alla disperazione silenziosa di quello giapponese.
Quanto a Guillermo Arriaga, si conferma un genio della sceneggiatura, cosa di cui nessuno dovrebbe dubi- tare, anche dopo aver visto Le tre sepolture.