Questa sera su Rai Movie (canale 24) alle 23:20 Foxcatcher – Una storia americana di Bennett Miller. Film del 2014 e vincitore del premio come miglior regia al 67esimo Festival di Cannes. I nostri collaboratori ne scrissero proprio in quella occasione, sia per il sito (Pier Maria Bocchi) che per la rivista (Cineforum 535, articolo di Massimo Causo). Pubblichiamo alcuni estratti della scheda di Fabrizio Liberti per Cineforum 543, segnalandovi anche la recensione di Leonardo Gandini per il sito.
Materiale umano fragile
Bennett Miller al suo terzo film si conferma uno dei registi più interessanti di Hollywood. Dopo l’originale rivisitazione della “mitologica” figura di Truman Capote e l’incursione nel mondo del baseball col sottovalutato L’arte di vincere, Miller ci regala uno straordinario viaggio tutto al maschile in una poco conosciuta pagina di recente storia americana, ma soprattutto un’ulteriore riflessione sullo stato di salute del “sogno americano”. [...]
Il film ha ottenuto cinque nomination al Premio Oscar e tonnellate di premi e nomination in giro per il mondo ma, soprattutto, il premio per la miglior regia al festival di Cannes. La critica lo adora, anche quella italiana nonostante qualcuno sottolinei che il punto debole del film è proprio nella regia. In realtà Foxcatcher – Una storia americana è soprattutto un film di regia, dalla grande semplicità e con un controllo assoluto dell’immagine, anche perché gli scambi verbali sono autistici ed essenziali, fino alla rarefazione, nel fedele rispetto delle fragili psicologie dei tre protagonisti principali, i due fratelli Schultz e John du Pont. I rapporti tra loro e le altre figure di contorno del film, come quella della madre di John interpretata da Vanessa Redgrave, il continuo tentativo di trovare in alcune scene un difficile equilibrio sospese come sono tra farsa e dramma, tutto ciò viene elaborato e costruito con certosina attenzione da parte di Miller, studiando puntigliosamente inquadrature, posizione della camera, scelta del punto di vista, e intervenendo con estrema grazia nella direzione degli attori.
La macchina da presa spesso è incollata ai volti di John e Mark per rubare ogni impercettibile variazione dei muscoli facciali, emozioni forti e intime che faticano a venire in superficie. Essi rappresentano i due lati di una stessa medaglia, in cui il ricco e il povero, si trovano però ad affrontare problemi e infelicità desolatamente simili. [...] Sperano di trovare l’uno nell’altro l’amico da sempre desiderato e hanno incentrato la loro ragione di vita nell’onore di rappresentare gli ideali patriottici dell’America.
Per descrivere il rapporto tra John e Mark sono stati scomodati molti padri putativi letterari e cinematografici, da Harold Pinter al film The Master, ma personalmente qui ci colpisce anzitutto l’evidenza che non si tratta di un rapporto di dipendenza intellettuale, quanto affettiva. [...]
Forse il paragone che può calzare maggiormente a descrivere la figura di John è Robert Block col suo Psycho, origine del capolavoro hitchcockiano, con una follia che nasce e cresce direttamente nell’alveo familiare. Brutto, goffo, non particolarmente intelligente ma molto presuntuoso, John ama definirsi “ornitologo filatelico filantropo” con questo preciso ordine in cui l’elemento umano è all’ultimo posto della triade e agli amici concede il “privilegio” di chiamarlo “Aquila d’oro”. [...]
La vita di John è la tragedia di uomo ridicolo e Miller lo rappresenta normalmente come una marionetta in uno stato catatonico, tanto che quando parla sembra una specie di robot anodino. Quando segue gli allenamenti i suoi ragazzi lo ignorano ma nel momento in cui nella palestra entra un elemento estraneo e, soprattutto, osservatore, che sia sua madre o la cinepresa che riprende allenamenti e interviste per uno spot sul Team Foxcatcher, fili invisibili lo animano all’improvviso. Inizia ad assumere un contegno da coach, o meglio da “mentore”, una parola che egli ama ripetere per descriversi e si lancia in improbabili apologhi sul ruolo formativo dello sport e sulla sua capacità di allenatore, con i ragazzi che lo osservano tra l’incredulità divertita e la compassione. Quando l’elemento osservatore si dilegua, egli istantaneamente ritorna allo stato catatonico iniziale e la sua sagoma attraversa il campo della mdp come un fantasma.
Anche Dave, come Mark, sconta un’infanzia difficile ma lui ha un fratello a cui badare e soprattutto la sua famiglia. Questi affetti gli forniscono una solidità e una responsabilità che gli altri due non possiedono ma che alla fine pagherà a caro prezzo perché, nella sua lucida follia, John non può accettare la sua felice normalità. [...]
Nella polvere da sparo si racchiude il segreto della potenza e del tragico destino di John du Pont e della sua famiglia. Una famiglia arrivata dalla Francia che, a partire dalla Guerra di Secessione e grazie al commercio della polvere da sparo, ha costruito un impero di ricchezze inestimabili e un potere lobbistico tra i più solidi. E con i pochi grammi di polvere da sparo contenuti nei tre proiettili sparati, John consuma la caduta sua e l’onta per la famiglia che rappresenta. […]
Fin dall’inizio egli aveva in mente Mark Ruffalo, Steve Carell e Channing Tatum per i tre ruoli principali. Miller ha compiuto con i tre attori uno straordinario lavoro di modificazione fisiognomica che li ha resi quasi irriconoscibili, plasmando per ognuno inconfondibili andature ed espressioni facciali. Ciondolante e con un sorriso prestampato il saggio Dave, incassato nelle spalle e sempre corrucciato il fragile Mark, rigido nella sua impassibilità l’Aquila d’oro John col suo ingombrante naso aquilino. Il risultato più strabiliante lo ha ottenuto proprio con Carell, attore comico che qui si trasforma in un nevrotico John du Pont, un uomo che voleva essere un buon padre per i suoi atleti ma che si è dimostrato in realtà solo un sinistro padrone.