Questa sera su Iris (canale 22) alle 21:00 Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, film che non ha certo bisogno di presentazioni. Ne parlammo su Cineforum 269 con i contributi di Davide Ferrario, Sandro Zambetti, Marco I. Zambelli e un'intervista curata da Alberto Crespi a Mario Maldesi, direttore del doppiaggio. Pubblichiamo alcuni estratti dell'articolo di Ferrario. (Per coloro che volessero rimanere svegli fino a tardi, segnaliamo che Paramount Channel all'una trasmette Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, da (ri)-vedere!).
Hello Vietnam
«Una pagina epica della guerra nel Vietnam» proclamano a gran voce le locandine di Full Metal Jacket e mai, credo, la pubblicità ha tradito tanto spudoratamente lo spirito di un film. Di epico, in Full Metal Jacket, c'è ben poco [...]
Nel film non c'è nulla di epico per una ragione molto semplice: l'epica presuppone un eroe, ma nel cinema di Kubrick eroi non ce ne sono né ce ne sono stati. Mai. Kubrick ha la sublime arroganza dell'artista che non è interessato agli individui, bensì all'Umanità e alla Storia.[...] Full Metal Jacket non è un film sul Vietnam, quanto sulla Guerra come Istituzione, e sulla sua manifestazione in potenza, l'Esercito.[...]
I wanna be your drill instructor
Non è la prima volta che Kubrick descrive gli apparati militari. Ne aveva già denunciato la follia in Orizzonti di gloria e li aveva derisi fino alle mutande in Il Dr. Stranamore. L'esercito incarna una delle ossessioni kubrickiane più evidenti: la demenzialità eretta a sistema. Kubrick, caratterialmente maniaco, è affascinato dalle istituzioni e dalle menti che sragionano, perché la loro pazzia è intelligente e metodica. [...]
La follia di Hartman ha una giustificazione sola, ma inequivocabile: l'autorità, altro fantasma ricorrente nella poetica kubrickiana. Nei suoi film c'è sempre qualcuno che comanda e che autolegittima il suo potere. Hartman non è uno psicotico, né - nella tradizione di decine di sergenti di ferro cinematografici - un sadico che vuole dominare l'identità delle reclute. Hartman è sicuramente un fascista reazionario, ma è soprattutto un efficientista. Fa il suo lavoro e il suo lavoro è produrre dei combattenti. «Non voglio dei robot, ma dei killer» spiega con disarmante candore.
L'avvio del film è strano, disorientante. La prima strigliata del sergente alla truppa sembra presa di peso dal Dr. Stranamore e Full Metal Jacket pare indirizzarsi verso la satira più crudele. Lo stesso Joker non prende sul serio Hartman e ne fa un 'imitazione alla John Wayne. Ma per lui e per il pubblico l'illusione dura solo cinque minuti. Hartman è un personaggio grottesco e ridicolo, ma è terribile perché detiene il potere e non è stupido. Quando Joker afferma di essere ateo ci aspettiamo che Hartman lo punisca e lo umili, ma non è così. Hartman, anzi, lo fa caposquadra perché, nonostante sia un «bastardo ateo comunista», ha del fegato. E il fegato, spiega, è l'unica cosa che conta. La sequenza è terribile perché nega al soldato qualsiasi possibilità di insubordinazione. Il sistema è tanto elastico da funzionare anche al di fuori dell'ideologia. Non è necessario credere, basta obbedire.[...]
Born to Kill
Full Metal Jacket non è un film sugli individui, si è detto più sopra, così come la guerra non è fatta né vinta dagli eroi. Ci vuole parecchio tempo prima di mettere a fuoco il personaggio di Joker come la figura centrale del racconto. All'inizio Joker è confuso in mezzo agli altri, una testa pelata come tante. Solo nella seconda parte diventa per Io spettatore una guida riconoscibile nell'inferno vietnamita. La tentazione di leggere il nome di Joker come una metafora deliberata è forte. Dopo l'esperienza di Parris Island, Joker diventa davvero un «burlone», un nichilista per necessità di fronte all'assurdità della situazione. I due simboli che mette in mostra (l'elmetto con scritto «Born to Kill» e il distintivo dei pacifisti) non significano nulla, se non l'azzeramento reciproco del loro senso. [...]
Kubrick è un moralista e, soprattutto, un pessimista. La verità che vien fuori dalla seconda parte del film è una di quelle verità così semplici e immediate da dar perfino fastidio (ed è stata esattamente questa la reazione di gran parte della critica americana). In guerra è meglio esser vivi che morti e tutto il resto non conta. Dirlo a parole è semplice, «spiegarlo» con un film molto difficile. Spiegarlo crudelmente e virilmente come fa Full Metal Jacket, poi, richiede un'estrema precisione di tono, perché l'orrore di Full Metal Jacket non è negli schizzi di sangue e negli arti amputati (comparativamente pochi rispetto ad altri film del genere) ma nella dimensione mentale del combattimento, nella meccanizzazione della barbarie: il prodotto coerente della propedeutica di Hartman.
Forse distratti dalla chiarezza della parabola del soldato Pyle, i critici si sono singolarmente dimenticati di notare l'esito di quella di Joker. Alla fine del film - e nonostante tutto il suo cinismo - Joker è anche lui (come i commilitoni tra i quali è intruppato nella notte) un perfetto prodotto della guerra, uno che dopo aver visto in faccia la verità («ammazzare o essere ammazzati») ha cancellato dalla sua mente ogni considerazione razionale: «L'unica cosa a cui pensavo era che ero contento di essere vivo ». Volente o nolente Joker si è trasformato in una killing machine: una piccola rotella senza volto nell'ingranaggio della morte. Hartman, probabilmente, sorride nella tomba. La tragica ironia finale di Full Metal Jacket è che la guerra ha preso in giro anche il suo giullare.
Militi ignoti
È difficile parlare di ogni nuovo film di Kubrick senza riferirsi agli altri. [...]
La materia dei suoi film, infatti, è la Storia ed è la Storia che vediamo al lavoro anche in Full Metal Jacket. [...]L'intenzione di Kubrick è deliberatamente quella di mostrare personaggi in cui non ci si può identificare. Joker e i suoi compagni non sono dei soldati, sono il volto collettivo dell'esercito. [...]Non ci sono personaggi positivi o negativi, solo uomini in guerra. In Full Metal Jacket non c'è innocenza, né catarsi: il momento forte, semmai, è il passaggio di Joker nella schiera degli assassini, nella scena in cui finisce la ragazza vietcong.
[...] Davanti a Full Metal Jacket ci si trova ancora una volta come di fronte al monolito nero. Kubrick ci ha portato dentro il mistero e poi ci ha lasciato lì a contemplarlo senza parole, annichiliti come la maggior parte degli spettatori che escono dalla proiezione del film. E, forse, nonostante il fiume di parole che ogni volta si spreca, il miglior commento a un film di Stanley Kubrick è il silenzio.