I padroni della notte di James Gray

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Stasera su Cielo alle 21:15 c'è I padroni della notte, il terzo film di James Gray: uno dei grandi autori del cinema statunitense contemporaneo. Ecco cosa ne scriveva Simone Emiliani sul nº 474 di Cineforum nel maggio 2008, ai tempi dell'uscita in sala (pdf disponibile qui)


La “tragedia familiare” s’intreccia con le forme di un torbido noir in I padroni della notte, folgorante terzo lungometraggio diretto da James Gray dopo gli ottimi Little Odessa (1994) e The Yards (2000, mai uscito in sala e distribuito solo nel mercato home-video). Non è forse un caso che il tratto dominante in comune di questi tre lungometraggi è che gli ambienti sembrano come avvolti dalle tenebre. In Little Odessa e The Yards Gray infatti inquadrava gli interni familiari come se fossero una specie di spazio sotterraneo senza uscita, in cui i protagonisti apparivano al tempo stesso prigionieri del proprio destino ma anche indissolubilmente segnati dai legami di sangue. In I padroni della notte l’illuminazione della fotografia di Joaquín Baca-Asay (del quale si era già potuto ammirare il lavoro in Rodger Dodger e Thumbsucker) sembra essere leggermente più forte e accesa. Ciò può essere evidente nei tenui colori che caratterizzano la festa della polizia all’inizio del film o in quelli più caldi quando avviene la riconciliazione tra Bobby e Joseph, dopo che il primo ha collaborato con la giustizia infiltrandosi in un’operazione anti-droga e il secondo è stato appena dimesso dall’ospedale. Si tratta però soltanto di un’apparenza. Della pellicola del cineasta statunitense resta come impressa sensorialmente una travolgente dimensione dark, presente nel modo in cui Gray inquadra le strade di New York richiamando contemporaneamente il miglior cinema americano degli anni Settanta. I padroni della notte possiede infatti, allo stesso tempo, quella dispersione e quella rabbia del cinema di Sidney Lumet ambientato nella metropoli statunitense (Rapina record a New York, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani), quella tragicità mescolata a fisicità e quella potenza drammaturgica di Mean Street di Martin Scorsese. Contemporaneamente però l’opera di Gray richiama quel respiro ossessivo di certi grandi noir della fine degli anni Quaranta, in cui il protagonista sembra ribellarsi improvvisamente al vortice in cui è inghiottito da tempo e dal quale non sembra più riuscire – o comunque, inizialmente non vuole – riemergere. La figura di Bobby può essere vista infatti, per esempio, come la reincarnazione di quel pugile che per arrivare al successo deve scendere a compromessi col mondo della criminalità, protagonista di Anima e corpo (1947) di Robert Rossen, o come quella dell’avvocato corrotto che decide di ribellarsi al racket delle lotterie clandestine che ha a che fare con la morte del fratello, in Le forze del male (1948) di Abraham Polonsky. Del resto è anche la stessa recitazione nevrotica di un grande Joaquin Phoenix, contrastata da quella ugualmente efficacissima di Mark Wahlberg (i due attori erano entrambi già stati diretti da Gray in The Yards e sono anche tra i produttori di I padroni della notte) che riporta alla memoria quella straordinariamente instabile di John Garfield, protagonista sia del film di Rossen sia di quello di Polonsky.

C’è, ne I padroni della notte, un’atmosfera chiusa, claustrofobica, in cui le figure sono come intrappolate e non sembrano avere vie di fuga. C’è, per esempio, il momento in cui Bobby deve incontrare il boss della mafia russa Vadim da infiltrato portando con sé un accendino nel quale è nascosta una microspia. Dall’arrivo sul luogo dell’appuntamento in cui viene perquisito fino al momento in cui è smascherato, Gray riesce a costruire una tensione crescente che funziona alla grande. Dietro c’è sicuramente una scrittura – la sceneggiatura è dello stesso regista – che è attentissima ai dettagli e che prevede alla perfezione i tempi di ogni imprevisto e della dinamica di ogni azione. La macchina da presa, sempre molto avvolgente per esempio nei piani-sequenza all’interno del locale, sta attaccata al corpo del protagonista che è incappucciato. Prima dell’irruzione della polizia che rappresenta come la frattura/interruzione di quel momento, però Gray crea una velocità interna alternando i momenti più soggettivi – Bobby che vede gli uomini che lavorano la droga, momento che richiama un altro grande film di quest’anno, American Gangster di Ridley Scott, oppure i continui dettagli sull’accendino prima di essere scoperto – ad una fisicità che appare contagiosa, dove più del contatto contano le reazioni del corpo, come per esempio il sudore e l’accelerazione del battito cardiaco del protagonista che sembra di sentircelo addosso. Un cinema che in passato si è già dimostrato in grado, proprio grazie alla sua epidermicità, di materializzare stati (la malattia della madre del protagonista in Little Odessa) e sensazioni (lo smisurato senso di ambizione e il lacerante dolore che si avverte in tutto The Yards).

Ma la velocità dell’opera del trentottenne regista statunitense, e di I padroni della notte in particolare, non è soltanto emotiva. L’opera possiede infatti un dinamismo degno del cinema di Friedkin soprattutto nella scena dell’inseguimento in cui avviene l’agguato dove perde la vita il padre di Bobby. C’è qui una forza sorprendente, un accumulo di dettagli (quello della pioggia, delle ruote dell’automobile, il camion che fa inversione di marcia) che si mescolano con una visibilità parziale, sfumata, caratterizzata da cromatismi grigi che nascondono e quindi alimentano ulteriormente il senso del pericolo. Il contatto, lo scontro, la morte sono imminenti. Gray, come spesso fa Friedkin, gioca volontariamente su questo ritardamento dell’epilogo, lasciando addosso un’adrenalina degna del miglior poliziesco statunitense. D’altronde, tra gli altri squarci del cinema americano degli anni Settanta presente in questa pellicola, sembra esserci anche quello di Il braccio violento della legge, del quale Gray riprende sia le tracce metropolitano, sia l’apparente perdita di ogni codice etico pur di perseguire i propri scopi.