Questa sera su Paramount Channel, alle ore 23:30, andrà in onda Il genio della truffa. Film del 2003 diretto da Ridley Scott, con Nicolas Cage e Sam Rockwell. Umberto Mosca, su Cineforum 429 (acquistabile qui), scrisse una recensione che ripubblichiamo, in parte, qui sotto.
[…] Ridley Scott ha sempre fatto del lavoro sull’immagine un elemento primario della sua opera e qui si vede ancora una volta. Così il film si trova, da subito, ad essere sospeso tra due picchi di virtuosismo: quello dell’interprete protagonista con la sua imponente (in vari sensi) presenza fisica e del regista abile costruttore di immagini e sapiente dispensatore di brani musicali che evocano scenograficamente l’anima del personaggio. Da una parte, dunque c’è una regia che fa del mondo interiore di Roy l’universo obbligato del film. Dall’altra c’è la ritualità malata del personaggio.
[…] Un film, si sa, è sempre lo specchio della società che lo produce, e da questo punto di vista il nostro appartiene a quella produzione hollywoodiana meno propensa, almeno in partenza, a vendere sogni allo spettatore e a dedicarsi alla denuncia e allo smascheramento di certe contraddizioni del sistema. Un numero impressionante di mazzette di dollari e sterline nascosti nella cassetta di sicurezza di una banca non sempre coincidono con una vita piena e felice.
Roy non possiede una vita privata, l’unica sua relazione sentimentale è costituita da uno scambio di sguardi incerti e frettolosi con un’ammiccante cassiera di supermercato. In un tale contesto di desolazione sentimentale, reso oltremodo pesante dai disturbi che sempre più frequentemente colpiscono anche la sua vita professionale, è chiaro che Roy non può che essere attratto dall’idea di stabilire un rapporto affettivo. Anche in virtù della prospettiva suggeritagli dal medico, che individua in questo argomento un punto importante per la guarigione del suo paziente. Ci sarà pure un rimedio per questi superprofessionisti del business, veri dilettanti del sentimento?
L’essere umano di fronte agli affetti è disarmato: è questa una delle tesi di punta del film. Come fa lo spettatore a non provare tenerezza nei confronti di un personaggio così desolatamente solo come Roy? E come fa lo spettatore a non provare un‘istintiva simpatia per un personaggio così attento e comprensivo verso l’amico qual è Frank? Ebbene, è proprio su questi due aspetti che il film gioca la sua prima e ultima carta. Viene dunque spontaneo domandarsi: in mezzo che cosa c’è? In mezzo c’è, giust’appunto, la commedia dei sentimenti. C’è l’incontro tra un padre e una figlia che non si sono mai conosciuti. Tutto è rigorosamente raccontato dal punto di vista dell’adulto. La paura della comunicazione che suggerirebbe a Roy di accendere il motore e di andarsene, ma anche la disperazione di chi sente di dover cambiare qualcosa nella propria vita. La difficoltà di adeguare temi e linguaggio della conversazione quotidiana a un inedito interlocutore. La necessità di misurarsi con la perdita di controllo sulla propria abitazione, dovuta alla presenza di Angela, adolescente perfetta poiché dedita al disordine e alla confusione. La totale indisponibilità ad ascoltare, e financo ad interessarsi, delle questioni legate alla vita sessuale della figlia.
[…] arriviamo all’ultima parte del film, alla truffa di cui cade vittima lo stesso Roy. A quello che il linguaggio tecnico degli sceneggiatori definisce uno “shake”, vale a dire un colpo a sorpresa all’interno del racconto, una svolta improvvisa che scuote lo spettatore senza che questi minimamente se lo aspetti. Anche se forse le tracce di una tale imboscata i più attenti le potevano intuire nella parte dell’opera dedicata a un approfondimento della relazione parentale che a dire il vero gira un po’ a vuoto, perché se non aggiunge nulla al personaggio di Roy neppure sembra essere interessata a un vero confronto tra i caratteri (a quel punto del film, ad interagire sono piuttosto due idee di personaggio). Perché quello che conta davvero è rendere credibile la completa messa fuori combattimento mentale del protagonista in vista del colpo di scena finale. Il film di Scott è costruito infatti secondo alcuni crismi della produzione mainstream, tra cui una linea narrativa destinata a fare la fine dei castelli di carta e a rivelarsi come luogo dell’illusione.
Una rivelazione che il film è bravo a mantenere nell’aura dell’assoluta insospettabilità. Troppa presa sul pubblico ha il riscatto del business disonesto con l’elargizione incondizionata dei sentimenti, la rimozione dell’etica sociale con la disponibilità al sacrificio privato. E se nella realtà Roy non fosse così buono, pronto a redimersi e incapace di portare rancore? Ma il cinema non è mica la realtà, e questo di Ridley Scott è cinema-cinema (come si diceva una volta)! E poi, adesso che non frega più la gente, Roy è felice. Meno male.
Comunque, per i più scettici, rimane la consolazione che, mettendolo in scena, il regista abbia guarito se stesso: «In me c’è molto del protagonista del film: sono compulsivamente pignolo, se sono a casa da solo e ho fame non mi preparo nulla perché penso già alla fatica che mi costerebbe pulire la cucina!». Concetto semplice ma efficace, come testimonia la prima parte del film. La migliore.