Questa sera, alle 22:55, su Rai Movie andrà in onda Kramer contro Kramer di Robert Benton. Film del 1979 con Dustin Hoffman e Meryl Streep. Pellicola protagonista tra le vincitrici degli Oscar 1980 (film, regia, attore protagonista, attrice non protagonista e sceneggiatura non originale). Ripubblichiamo la scheda a firma di Gualtiero De Marinis uscita su Cineforum 193 (acquistabile qui).
Stesso tema per il film trionfatore dell'anno, razziatore di Oscar, campione assoluto della commossa e umida predilezione del pubblico: Kramer contro Kramer, naturalmente. Non staremo certo a dolerci dei criteri che informano l'assegnazione degli Oscar; si sa che è un premio che l'Industria hollywoodiana conferisce a se stessa e che quindi quest'anno va giustamente al più furbesco tra tutti i prodotti romantici. Non ci dorremo neppure per Zeffirelli che con Il campione ha tentato il colpo, fallendolo per eccesso di melassa.
Ciò di cui non si può non dolersi, però, è la triste fine (o il clamoroso inizio) di Robert Benton, che dall’officina di Altman ci aveva consegnato quello splendido gioiello di lucidità e compattezza che era L'occhio privato. Dal momento che tanti registi hollywoodiani ci insegnano che il passaggio alla grande industria non è necessariamente causa di assopimento di ogni tratto personale e dal momento che “operazione Kramer” poteva sì richiedere la degradazione morale del suo autore ma non esigeva quella stilistica, ci viene in mente che Benton sia stato un bluff. Già la visione del primo film di Benton, Bad Company (un western piacevole ma non privo di lungaggini e sbavature), ci aveva fatto nascere il sospetto che il contributo di Altman a L'occhio privato non fosse stato solo finanziario; ora, questo Kramer contro Kramer, con la sua titubanza tra melodramma e commedia, mostra un regista incerto, privato del registro brillante che gli è più consono, ma nello stesso tempo privo del nerbo necessario a sostenere gli effettacci inscindibili da una simile narrazione. Se ci si accinge alla realizzazione di una storia come quella dei coniugi Kramer si devono lasciare da parte i pudori e si deve avere il coraggio di andare fino in fondo a colpire gli spettatori; non sì può oscillare tra l’amarezza della commedia alla Woody Allen (come nella prima parte, la migliore del film), il romanticismo a forti tinte (la sequenza del processo, quella, bella perché “giusta” ed efficace, dell'incontro al parco tra la mamma e il bambino) e il sottotono dolciastro e falsamente pudico (tutta “l'educazione sentimentale” tra padre e figlio). “Dolciastro” è l'aggettivo giusto per un film, nei contenuti del quale ci rifiutiamo categoricamente di addentrarci; sarebbe stato troppo facile parlarne male appellandosi alla regressività dei suoi intenti, al suo moralismo misogino mascherato da paterna solidarietà.
Il film cerca di rimettere a posto i ruoli tradizionali fingendo di sconvolgerli; ma appunto, non ha il coraggio di dichiararsi con piena platealìtà per quello che è; non ha il coraggio di far piangere una sala intera, ma solo alcuni spettatori. Certo, l'ammorbidimento dei toni più drammatici è un pedaggio pagato a un pubblico cui la modernità impone di farsi commuovere solo misuratamente e, appunto, “modernamente”; tuttavia, anche in questi ambiti, l'operazione avrebbe potuto conservare una maggiore dignità.