Questa sera su Rai3 (canale HD 503) alle 21:15 La mafia uccide solo d'estate, opera prima di Pif (Pierfrancesco Dilberto), il quale si aggiudicò il premio come miglior regista esordiente sia ai David di Donatello sia ai Nastri d'Argento. Il film vinse anche il premio del pubblico al Festival di Torino. Vi proponiamo quanto scrisse per il sito Alessandro Uccelli, segnalandovi anche la scheda di Giacomo Conti su Cineforum 531.
E che non era un film da concorso, e che era una cosa per le sue fan, per le ragazzine che guardano Mtv; qualcuno ha anche obiettato che non fosse neanche proprio un film-film; che poi mi piacerebbe sapere che cosa sia un film-film, o cosa renda un prodotto per il grande schermo meno film.
Ammetterò che io stesso sono andato in sala, a vedere l’esordio di Pif, in concorso al TFF31, con più di una perplessità. Mi pare, invece, che La mafia uccide solo d’estate sia, per quel che riguarda lo scenario italiano recente, uno degli esperimenti narrativi più sinceri, se non uno dei più compiuti.
Lanciato nell’impresa di costruire un Bildungsroman che è storia generazionale, nutrita di cinema civile e integrata coi documenti storici, lo fa raccontando l’educazione sentimentale e politica di Arturo (innamorato di Flora e, almeno all’inizio, di Andreotti) così fittamente quanto inconsapevolmente interlacciata con i tempi e i luoghi della guerra di mafia, e con la presa di coscienza, progressiva ma non scontata, singolare e poi collettiva, della gravità del problema, per concludere, in sostanza, con la stagione delle stragi. E lo fa mettendo in discussione le retoriche del discorso su Cosa Nostra e sulla storia recente, con un gusto per l’ironia e per il paradosso che pure lasciano spiragli a non pochi colpi al cuore.
Non è scontato, se si pensa che l’apprendistato cinematografico di Pier Francesco Diliberto, meglio noto come Pif, che è sceneggiatore (con Marco Martani e Michele Astori), regista e attore di quest’impresa, è avvenuto sul set di un film che invece a quella retorica non rinunciava affatto, I cento passi di Marco Tullio Giordana.
Mettiamo poi che la differenza la faccia proprio la sua voice-over, un po’ gracchiante e non esattamente impostata: l’autore e conduttore televisivo siciliano impone fin dall’inizio del film una voce molto connotata, con la quale orienta lo sguardo dello spettatore, mantenendo un tono un po’ da iena, un po’ da testimone.
E pensare che quello della voice-over è un problema vecchio almeno quanto il cinema sonoro nostrano, e che normalmente può innervosire, non poco: ma quella di Pif in questo film porta con sé il meglio della propria esperienza in televisione, senza per forza rimandare a un immaginario limitato al piccolo schermo; è il veicolo di un’ironia acuminata, e solo all’apparenza candida, la stessa che gli ha aperto le porte più improbabili e garantito gli affondi più importanti; una voce che, nel film, non è l’io narrante solennemente romanzesco o ad ogni costo simpatico di certe commedie degli ultimi vent’anni, ma piuttosto una voce in semi-soggettiva, che ricuce le scene di finzione alla cronaca, alla testimonianza; anche quando, nella seconda metà del film, ritrova corpo in un improbabile e impacciato Arturo, che dovrebbe essere ventenne (mentre Arturo bambino è il bravissimo Alex Bisconti).
Ma poco importa, in fondo, l’incongruenza, perché questo film (giacché è un film) rifugge con misura i moduli, le gabbie, di molta fiction di ricostruzione storica italiana, i limiti del décor vacuamente filologico, degli attori ipermimetici, per liberare col racconto un discorso morale che si dispiega con un’urgenza assoluta al pubblico, ai bambini che si avvicendano nel finale: quei bambini siamo noi, o, se preferite, sono i nostri bambini. Sono loro i testimoni.