La marcia dei pinguini di Luc Jacquet

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Questa sera su Italia 1 (canale HD 506) alle 22:50 La marcia dei pinguini del francese Luc Jacquet, vincitore nel 2006 dell'Oscar come miglior documentario. Su Cineforum 450 Fabrizio Tassi ne scrisse la scheda che pubblichiamo qui.


L’incanto dura pochi minuti. Il tempo di vedere un pinguino sgusciare fuori dall’acqua, nell’infinito nulla dell’Antartide, e ascoltare Fiorello che dice (spiritoso) «Ehi, c’è nessuno?». Luc Jacquet dovrebbe chiedergli i danni.

Chissà com’è la versione francese a tre voci, con mamma, papà e bimbo-pinguino. Chissà se funziona Morgan Freeman, nella trionfale versione americana, voce narrante che – ci dicono – mantiene un tono quasi epico (come in effetti vorrebbe essere il film). Aspetteremo con ansia la versione in Dvd. Intanto ci teniamo Fiorello, che non solo fa lo spiritoso senza riuscirci, ma non ha neanche alcuna idea di come si legga una favola o di come si racconti una storia.

Proviamo ad escludere per un attimo Fiorello dalla nostra percezione – anche se è oggettivamente difficile, la versione italiana del film sembra una collezione di immagini di accompagnamento alla sua voce.

In principio c’è il pinguino imperatore che, come dice il regista-biologo Luc Jacquet, è «il confine della vita». Suggestione formidabile. A 40° sotto zero, con venti che soffiano anche a 150 km/h, in quel vuoto inabitabile, circondato da cattedrali di ghiaccio e da tutte le possibili sfumature del bianco, la vita per sopravvivere ne ha inventata una delle sue. Quello che in certi ambienti protestanti americani è sembrato un inno alla famiglia, alla fedeltà, al sacrificio, è invece l’apoteosi del principio dell’adattamento e della selezione naturale. È un film che andrebbe dedicato alla memoria di Darwin, perché svolge in poesia (convincente) ciò che siamo abituati a trattare in formule astratte di dubbia efficacia.

Jacquet ha tentato l’impossibile. Mettere insieme il rigore di un documentario “scientifico”, con lo stupore di una storia che ha tutte le carte in regola per emozionare: una trama con suspense, dei personaggi con cui ci si identifica volentieri (anche se gli attori sono intercambiabili), lacrime e risate, colpi di scena ben assestati…

Non si può che rimanere a bocca aperta di fronte alle marce disumane (dispinguinanti?) di quei buffi animali in lotta contro il sadico dio della natura, che si è voluto divertire alle loro spalle. Non si può che inorridire alla vista del piccolo pinguino congelato, nonostante le cure, il tempo speso per lui, il sacrificio. Non si può che guardare con ammirazione lo sforzo dei padri, al gelo e a digiuno per intere settimane, mentre tengono l’uovo in equilibrio sulle zampe.

Ma c’era davvero bisogno di un film così lungo (qua e là anche noioso), che si perde in estetismi naturalistici lambiccati, che copre il silenzio dell’Antartide con una colonna sonora bjorcheggiante e radiohaedeggiante, che alla lunga diventa ripetitiva e bluffa pure un po’ per stare dentro i binari del cinema? È una domanda stupida, lo so. E allora provo a farne un’altra: non è un po’ volgare e furbesco il modo in cui la vita dei poveri pinguini viene sommersa da quintali di antropomorfica melassa? Eppure l’intento era l’esatto contrario, come hanno diligentemente scritto quasi tutti i recensori, che hanno usato come termine di paragone negativo i documentari del National Geographic (?!). Diciamo che La marcia dei pinguini funziona come variazione originale sul tema dell’altrove. Per il resto il “fenomeno” del suo successo sta tutto dentro la logica del consumo cinematografico contemporaneo, che ogni tot pezzi dal solito menu ha bisogno di inventarsi il film che dia l’impressione di andare controcorrente (e noi, per non sbagliare, ci mettiamo Fiorello…).