Questa sera su Iris (canale 22) alle 21:00 La promessa dell'assassino (Eastern Promises) di David Cronenberg. Su Cineforum 471 gli dedicammo copertina e speciale, con gli articoli di Giuseppe Imperatore, Johnny Costantino, Chiara Borroni, Francesco Cattaneo, Anton Giulio Mancino, Andrea Bordoni e Matteo Marino. Abbiamo scelto per voi il pezzo di Chiara Borroni, ma il consiglio, come di consueto, è di recuperarli tutti (la rivista è disponibile anche in versione cartacea).
Il principe è nudo
«Governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». (Michel de Montaigne)
C’è un problema di riconoscibilità alla base di Eastern Promises e c’è anche un problema di rapporti di forza. Percezione dell’appartenenza e autorità, elementi cardine di ogni gruppo sociale, come il regno, come la famiglia, come il branco.
Ogni gruppo sociale è un sistema fondato sul senso di appartenenza percepito dall’individuo rispetto all’insieme e sul senso di riconoscibilità percepito dai membri della comunità rispetto al singolo. Nella famiglia come nel branco, ci si riconosce e si viene riconosciuti.
Il gruppo sociale è però anche un sistema fatto di rapporti di forza in equilibrio. Nella famiglia come nel branco, o si riconosce l’autorità o l’equilibrio s’incrina.
Per questo la strategia pragmatica del protagonista di Eastern Promises, spintosi nel suo viaggio eroico tanto al di là del punto di non ritorno da aver inesorabilmente allontanato ogni possibile processo di reversibilità, si fonda sul rendersi riconoscibile come membro del gruppo stesso. Introdursi, conquistare la fiducia, dominare il gioco affondando il cuneo nelle incrinature strutturali della famiglia; forzare il limite tanto da addentrarsi progressivamente nelle ferite prodotte nel corpo stesso del sistema dalla distorsione di quelle dinamiche di riconoscibilità e di forza che lo dovrebbero reggere e guidare.
Queste sono le regole che reggono la famiglia nel senso sanguineo e malavitoso del racconto, e anche, di conseguenza, quelle che stanno alla base delle relazioni esclusive tra i suoi membri; ancora sistemi binari di attrazione, di tensione, di aspirazione, meccanismi di quelli che piacciono a Cronenberg. Il parossismo della sua weltanschauung in base due, che in Eastern Promises è esplicito quanto sublimato dall’essenzialità, si lega infatti alla consueta questione del doppio ma anche a un altro tipo di dualità, quella relazionale appunto, quella dei rapporti diadici che i personaggi maschili di questo nuovo affresco “familiare” stabiliscono l’un con l’altro.
Il doppio. È inopinatamente doppio l’agente infiltrato Nikolai, tanto che il suo snaturamento da funzionale si è fatto esistenziale, forse. È sfacciatamente doppio il vecchio Semyon, orco brutale travestito da nonno bonario; è forzatamente doppio il disgraziato Kirill, dannato dall’impossibilità di accettare la sua omosessualità e costretto pateticamente alla maschera da sadico defloratore.
Ma anche la coppia. Sono due entità in relazione di diffidenza, di studio reciproco Semyon e Nikolai; un’autorità funzionalmente riconosciuta quella del primo da parte del secondo, un’appartenenza funzionalmente concessa quella del vecchio all’autista. I due elementi di questa diade sono legati da quell’utilitarismo lucido e pragmatico tipico di chi la forza (e il potere) li detiene per diritto di nascita e a dispetto delle apparenze. Semyon e Nikolai non sono, in fondo, che due capobranco che si fronteggiano in preda alla brama di affermazione assoluta, riconoscendosi come capi in potenza o in atto.
Sono invece due entità in relazione genetica, Semyon e Kirill; hanno però in comune un patrimonio che non riesce a trovare giustificazione di quella riconoscibilità che dovrebbe essere naturale. Il problema di fondo della loro relazione sta infatti proprio nella non riconoscibilità del figlio da parte del padre, nella non appartenenza di quello al branco, ancora una volta a dispetto delle apparenze. Non serve l’ostentazione della lezione di stupro, non serve la brutalità dei calci nel costato, non serve il tentativo di sostituzione salvifica. Kirill non è all’altezza del ruolo che la natura ha serbato per lui, non può ereditare la forza né l’autorità di quel padre al quale è incondizionatamente sottomesso come un cucciolo che si ritrova steso sul dorso mostrando tutta la sua vulnerabilità incapace di reagire: «Non è zuffa se uno non restituisce le botte!», questa è la sintesi del legame tra il vecchio testosteronico re e il giovane principe senza nerbo.
Kirilll non è l’erede del capobranco e non è il prosecutore della specie. Questo dice il reiterato filo rosso della sua omosessualità nevrotica e rimossa, perché culturalmente inaccettabile. Kirill è la condanna della famiglia.
Ed è proprio qui, in questa falla culturale e affettiva, in questa crepa profonda, che è dell’equilibrio identitario di Kirill e della famiglia tutta, che Nikolai affonda il grimaldello che gli consentirà di forzare l’accesso al gruppo e di attuare il suo smantellamento dall’interno.
La capacità di gestire e approfittare delle distorsioni e delle storture è, d’altra parte, il fondamento stesso dell’esistenza di quest’eroe: la distorsione della realtà è alla base della sua trasmutazione, atto volontario, parallelo e complementare a quello necessario quanto inutile di Kirill, necessario per sopravvivere ai suoi stessi occhi. In qualche modo Nikolai e Kirill sono davvero fratelli elettivi, fratelli nella loro labilità identitaria, geminati dal loro vivere in apparenza contrastando la propria essenza.
Per questo la loro diade, fondata su una rapporto di affezione oltre che di forza deragliato, è quella che manda in crisi il sistema: perché il sentimento che lega Kirill a Nikolai è la sua fallace ferita di umanità, l’unico sprazzo di irrazionale positività in un sistema altrimenti basato sul calcolo e sulla violenza ma anche la concretizzazione della sua totale, irrecuperabile, ferale nudità.
Alla sottomissione ventre all’aria nei confronti del padre, in questo rapporto Kirill trova lo sfogo per un’emotività diversa, vive finalmente il suo senso di appartenenza, ottiene il suo angolo di riconoscibilità attraverso quello strusciarsi di musi che indica una percezione olfattiva, tattile, affettiva, profonda dell’altro. Carezze, pacche, fronti e guance che si sfiorano, ripetutamente, come già tra i precedenti fratelli cronenberghiani; contatti fisici eloquenti che non indicano obblighi familiari o riproduttivi o autoritari, solo emozioni e affetto. Nikolai è a tutti gli effetti l’oasi affettiva del disgraziato Kirill. E a Nikolai questo serve proprio per affondare l’arma nelle carni della famiglia ferita e lacerarla definitivamente.
Riconoscibilità e forza indagati dunque nel loro deviare rispetto a un ordine che dovrebbe essere quello costituito, nel loro contraddirsi tra essenza e apparenza, nel loro divenire fallaci; dinamiche che proprio nella loro distorsione reificano una nuova formula del discorso di Cronenberg sulla mise en abîme della realtà e dell’identità. Una formula molto più concreta delle tante declinazioni possibili messe già in scena prima di History of Violence. Lì il regista sembra aver cominciato a credere in questa nuova nitida essenzialità, lavorando di sottrazione, ancorando ulteriormente il corpo del racconto alla sua quotidiana e distorta nuda carnalità.