Questa sera, su Cine Sony, alle ore 21:00 andrà in onda La sottile linea rossa. Orso d'oro a Berlino nel 1999, uno dei film più importanti di Terrence Malick. Su Cineforum 382 dedicammo al film uno speciale che consigliamo di recuperare integralmente (qui). Riproponiamo alcuni estratti del pezzo scritto da Adriano Piccardi.
[…] Prima di tutto, non so se sia corretto parlare di questo film come di un film "contro la guerra", "antimilitarista", e via recitando nell'ovvia sottolineatura di una componente spendibile senza eccessive richieste di spiegazioni ulteriori, che innanzitutto si desidera trovare, di questi tempi, nei film che affrontano il tema. Mi sembra innanzitutto più produttivo considerare il motivo della guerra come la porta attraverso la quale Malick ha scelto di passare per poter(ci) dire qualcosa di radicale (e forse, in definitiva, di indicibile) sull'irriducibilità dell'altro: condizione da cui il soggetto ricava la solidità che lo rassicura del suo esserci, ma, contemporaneamente, il destino della sua dissoluzione. Irriducibilità dell'altro: nelle prime inquadrature, in tutta la sequenza introduttiva, dove vediamo Witt che cerca il modo per entrare in contatto con una civiltà a lui estranea e ascoltiamo le sue riflessioni sulla possibilità di percepire l'eternità nella calma con cui bisognerebbe saper affrontare la morte, “l'esser cosa della cosa” si afferma con forza irrevocabile. Parlo della natura, l’eterno coprotagonista con cui l'umanità ha dovuto confrontarsi, con esiti alterni e sempre, finora, provvisori: la foresta, le nervature dei tronchi, le foglie, i rami, la luce del sole che ne attraversa la trama, l'acqua. Si delinea un ambiente che riassume in sé la quintessenza di un radicalmente altro, depositario principale di quel silenzio che chiama a sé Witt come chiunque altro (dentro e fuori dal film) e a cui ognuno cerca di rispondere - ma quasi sempre soltanto per trovare conferme al già detto.
In modo particolare, è a prima vista emblematico il fatto che Malick abbia scelto di mostrarci la guerra nelle isole dell'Oceano Pacifico: non esiste fetta del pianeta che, più di questa, abbia alimentato sogni di utopia nell'uomo occidentale degli ultimi due secoli; cinquant'anni prima degli avvenimenti narrati dal film, Paul Gauguin abbandonava il nostro continente per andare a trovare a Tahiti rifugio e un senso nuovo alla sua arte. In nessun altro luogo potevano apparire altrettanto empie le conseguenze dell'applicazione del binomio tecnica/guerra, che nel corso del nostro secolo si è imposto come elemento fondamentale nello sviluppo cognitivo e tecnologico della società a cui apparteniamo. Tutta la parte del film che prende avvio con lo sbarco sulle spiagge di Guadalcanal e si conclude con la conquista delle postazioni giapponesi ne è la dolente, straziante raffigurazione. La battaglia condotta a livello dell'erba lungo i fianchi della collina, sulla cui sommità stanno i nemici da distruggere, mette in scena con i vari personaggi, immobilizzati o striscianti in questo fluttuante mare di verde, e attraverso le loro soggettive "macro", la vertigine dello scarto irrimediabilmente introdotto tra il mito di un nuovo eden e l'imposizione reale di un luogo in cui misurarsi soltanto con la ricerca della sopravvivenza. Gli uomini concentrati soltanto su se stessi, sul calcolo delle possibilità di vita o di morte conseguenti al gesto che stanno per compiere, in realtà si perdono, sono già perduti a se stessi: ciò che stanno facendo è prodotto (e origine) di un fatto collettivo che li contiene e li annulla, in quanto persone. E la natura che li attornia riprende per loro le uniche sembianze allora possibili: quelle che la tecnica applicata al metodo di uccidere le assegna. Nella messa in scena di questo rovesciamento, soltanto lo sguardo dell'arte può ritrovare, talvolta e per caso, la traccia di ciò che sembrerebbe irrimediabilmente cancellato: per esempio, in un ralenti di soldati buttati sotto il fuoco nemico, che lascia intravedere per un attimo, sul bordo del fotogramma, il lampo azzurro di una farfalla.
[…] La struttura drammatica e visiva è costruita per opposizioni che spesso si intrecciano, rafforzandosi: natura/guerra, soldati americani/soldati giapponesi, bene/male, il presente della battaglia/il passato di una storia d'amore, vita/morte, visibilità del comportamento imposto dalle circostanze/disincanto segreto espresso nel monologo interiore dai personaggi anche più insospettabili (il tenente colonnello Tali, il sergente maggiore Welsh). Di fronte ad antitesi tanto laceranti, Malick non assume il punto di vista di chi ne ricerca ad ogni costo una soluzione: la sua scelta è quella della convivenza o, per meglio dire, della complementarità degli opposti, che soltanto se mantenuti insieme possono ricomporre la sfera dell'esistenza.
[…] ancora più significativo il modo in cui Malick ci restituisce improvvisamente, nell'epilogo, il soldato che avevamo visto in piena crisi da panico durante la fase preparatoria allo sbarco. Dopo la battaglia, a cui è sopravvissuto, gli viene affidato l'unico "consuntivo" (se così possiamo chiamarlo), che però, ancora una volta, non è un giudizio su quanto avvenuto, ma un'apertura su ciò che in futuro, dopo l'esperienza appena provata, si sente in grado di affrontare. Una prospettiva progettuale. Ancora una volta viene in mente Heidegger, e la sua idea che soltanto affidandoci, in quanto mortali, all'appello che trascende qualsiasi tentativo di risposta (anche quello di Witt, la sua "scintilla"), si può restare aperti alla storia, che continua comunque sotto forma di progetto in tal modo autorigenerantesi. Non mi meraviglierei se all'immagine finale che il film ci consegna di questo soldato, Malick stesso avesse voluto affidare l'idea che coltiva di sé e del proprio posto nel mondo.