Questa sera su Rai Movie alle 21:10 va in onda La spia – A Most Wanted Man di Anton Corbijn, che è l'adattamento del romanzo di John le Carré Yssa il buono, ma soprattutto l'ultima interpretazione dell'indimenticato Philip Seymour Hoffman. Di seguito la recensione che pubblicammo sul nª 540 di Cineforum nel dicembre 2014.
Anton Corbijn, fotografo e regista olandese che aveva folgorato Cannes nel 2007 con Control, biopic su Ian Curtis, cantante maledetto degli inglesi Joy Division, tenta di stupire di nuovo, questa volta al Sundance Film Festival, con La spia – A Most Wanted Man, pellicola nata grazie all’adattamento su grande schermo del romanzo Yssa il buono di John le Carré. Il punto di partenza è la figura di Günther Bachmann agente segreto specializzato in operazioni antiterroristiche con base ad Amburgo, tormentato da un passato tanto oscuro quanto tragico e interessato a sventare un ipotetico attacco terroristico pianificato del presunto jihadista Issa Karpov. In verità il giovane musulmano si rivela essere l’esca per la cattura di un ricco islamista, che appoggia segretamente numerose attività terroristiche tramite donazioni a misteriose associazioni umanitarie.
A differenza di altri adattamenti delle pagine di le Carré (La Casa Russia, Il sarto di Panama), Corbijn decide di produrre una spy story atipica e difforme, che fa dell’introspezione psicologica e del dilemma morale il suo punto di forza. Nonostante l’impianto narrativo veda contrapporsi i soliti, vecchi stilemi tematici e le inflazionate dicotomie assiologiche, tra cui l’immancabile contrapposizione America/Islam e Umanismo/Terrorismo, La spia rivela la propria originalità attraverso le impalpabili sfumature valoriali, che impreziosiscono non solo gli avvicendamenti e i conflitti interni al racconto, ma, soprattutto, vanno a costituire la sfaccettata personalità del protagonista, Günther.
Ed è qui che interviene Philip Seymour Hoffman, principale interprete dell’intera pellicola. Come un rinnovato Atlante, l’attore statunitense è costretto a sopportare il peso dell’intero lavoro, concedendoci un’ultima splendente interpretazione: caratterizzato da una fragile armonia e da un granitico cinismo, riesce a colorare la personalità di Günther di una quantità invidiabile di sfumature; nello stesso momento eroe della conoscenza e intransigente alcolista, freddo calcolatore e partigiano di una melensa sincerità, conduce lo spettatore negli abissi di un’umanità nascosta, in cui il detto proustiano per cui «si diventa morali non appena si è infelici» assume connotati tanto grotteschi quanto illusori.
Diversamente da La talpa, fortunata pellicola dello svedese Tomas Alfredson, Corbijn decide di archi- tettare una spy story lineare e granitica, caratterizzata da una chirurgica geometria degli spazi che rinchiude i personaggi nei loro stessi, infiniti, giochi strategici e mentali. Paradossalmente, quindi, la fluidità psicologica diviene una gabbia impenetrabile che confina ogni personaggio all’interno del proprio Umwelt, distaccandolo ambivalentemente sia dalla realtà (la ricerca di pericolosi terroristi, lo spionag- gio sotterraneo) sia dalle relazioni umane (i rapporti con i colleghi, con la vita e la giustizia).
Ma ciò che renderà indelebile questo lavoro sarà, soprattutto, l’ultima grande prova attoriale di Philip Symour Hoffman, che ci ha abbandonati silenziosamente e inaspettatamente, proprio come, alla fine de La spia, decide di uscire di scena separandosi dalla sua Mercedes e lasciando gli spettatori confusi e tramortiti, poiché, di spie del suo calibro, sarà impossibile rivederne.