Questa sera su RaiMovie alle 21.10, Marguerite di Xavier Giannoli, storia di una nobildonna francese degli anni '20 (ispirata alla vera Florence Foster Jenkins, ma questo non è il film di Frears) convinta di possedere doti da cantante lirica ma inconsapevolmente condannata da una voce stonata e impossibile da ascoltare. Ripubblichiamo la recensione di Nicola Rossello sul n. 549 di Cineforum.
Marguerite è un personaggio di disarmante candore naïf, una donna semplice che, ignara delle reazioni imbarazzate che le proprie penose prestazioni canore suscitano nei suoi ospiti, vive la melomania come una passione maniacale, dove il desiderio di affermazione di sé, il sogno di diventare una diva, si combina con la speranza di suscitare l’attenzione del marito che l’ha impalmata solo per i suoi quattrini e ora la trascura.
V’è qualcosa di pirandelliano, di “umoristico”, ovvero di comico e patetico insieme, nella protagonista del film, una figura a cui Xavier Giannoli guarda da un’angolazione particolare, che gli consente di cogliere il lato buffo del personaggio (di qui l’ironia talora crudele sulle sue velleità artistiche) e quello patetico (la ridicolaggine che, nel corso del racconto, diviene vicinanza solidale, empatia, persino ammirazione).
Il pubblico che durante le esibizioni dell’eroina ascolta le sue stonature è chiamato (come il pubblico del film) a superare l’iniziale sconcerto, che è occasione di riso, e a cercare di capire e compatire. E così l’ironia dei cortigiani ipocriti che, per mero opportunismo, sono lì ad applaudire la voce di cornacchia della gentildonna; la supponenza esagitata di un attardato esemplare della bohème dada che, animato da sacro furore anticlassicista, è pronto a celebrare i vocalizzi di Marguerite come un atto iconoclasta; l’ignavia del marito che, perso dietro alle avventure galanti, non ha mai trovato il coraggio di distogliere la moglie dalle sue sconsiderate ambizioni: tutto questo nel corso del film è destinato a diventare altra cosa.
I personaggi che gravitano intorno alla protagonista saranno indotti a ricredersi sul suo conto (sulla generosità con cui si vota alla musica, non già sulle sue doti canore) e a trasformare il proprio disprezzo in attenzione rispettosa e partecipe. La stessa attenzione che a Marguerite ha sempre dedicato Madelbos, il domestico di colore, l’unico che, avendo saputo riconoscere in lei una creatura sincera – più sincera della folla dei parassiti e falsi ammiratori che la adulano per interesse –, ha scelto di schierarsi al suo fianco assecondandone i desideri, le fantasie, le illusioni.
Marguerite, chiusa nella sua esaltazione, decide di vivere sino in fondo il proprio sogno e di esibirsi davanti a un pubblico autentico, in un teatro vero: un’esperienza disastrosa che farà di lei un’eroina tragica. Prima che ciò accada, Giannoli, pietosamente, le concede di affrontare le prime note del concerto con voce infine intonata, possente. Per un breve istante anche a Marguerite sarà dato riconoscersi nella grande diva che aveva sempre sognato di diventare.
Giannoli ci era noto in particolare per Quand j’étais chanteur, storia di un amore difficile tra due creature accomunate dal bisogno di nutrire un sogno di felicità che le risarcisse dalla desolazione del presente. In quel film il regista si poneva giudiziosamente al servizio dei suoi magnifici interpreti (Gérard Depardieu, Cécile De France), adottando una messa in scena limpida, senza svolazzi, capace di valorizzare il piccolo mondo marginale in cui i personaggi si muovevano.
Qualità espressive che in Marguerite ritroviamo solo in parte. Anche qui una regia sobria, attenta al lavoro sugli attori, sa ricusare l’eccesso del visivo, la magniloquenza accademica (la descrizione degli arredi del castello in cui vive l’eroina non diviene mai illustrazione compiaciuta e inerte). E tuttavia, soprattutto nella seconda parte della pellicola, si coglie qualcosa di macchinoso, di stonato. La sceneggiatura soffre indubbiamente di certe inopinate deviazioni lungo rivoli narrativi secondari (la storia tra Hazel e Lucien) da cui il film trae assai scarsi benefici.
Né Giannoli sembra padroneggiare appieno la commistione tra comico e drammatico. E così se le tonalità caricaturali a cui la regia fa sovente ricorso sono di grana grossa (la rappresentazione dell’artista d’avanguardia), tutta la parte conclusiva del racconto che descrive il sacrificio di Marguerite annega nella ridondanza e nell’istrionico.