Questa sera alle 21.15, su Paramount Channel, un grande film di Peter Weir, uno dei più imprevedibili e spettacolari blockbuster del cinema hollywoodiano degli anni Duemila: Master & Commander. Simone Emiliani ne scrisse sul numero 431 di Cineforum.
C’è una saga letteraria molto popolare dietro Master & Commander ed è costituita dai venti romanzi sul capitano Aubrey e sul medico Maturin dello scrittore inglese Patrick O’Brian. Il film di Peter Weir fa esplicitamente riferimento al decimo di questi libri, intitolato Ai confini del mare, ma in sede di sceneggiatura il cineasta australiano, assieme a John Colee, ha preso materiale narrativo anche dagli altri romanzi per sviluppare in modo più approfondito il rapporto tra Aubrey e Maturin, il periodo storico in cui si svolge l’azione e la conformazione dell’equipaggio.
Dietro l’opera di Weir c’è apparentemente una base letteraria molto robusta oltre a una tradizione cinematografica su “capitani coraggiosi” che affrontano le insidie del mare come, tra gli altri, Bligh in La tragedia del Bounty di Frank Lloyd, Ahab in Moby Dick, la balena bianca di John Huston – anche se in Master & Commander si avverto- no più gli echi e le atmosfere del romanzo di Melville che del suo adattamento cinematografico – e Jack Sparrow nel recente La maledizione della prima luna di Gore Verbinski.
Su queste basi, dentro il film ci sono quindi tutti gli elementi per un kolossal avventuroso con un cast di prim’ordine e una produzione forte alle spalle (Samuel Goldwyn jr. appoggiato dalla Fox, la Miramax e la Universal). Ma Master & Commander si stacca subito dagli stilemi del film di genere per una sensibile sottrazione della materia. Se il film d’avventura è composto soprattutto dallo scontro, dal- l’azione, dalla velocità, il film di Weir è, al contrario, immobile, avvolto dall’acqua dell’oceano e da inquietanti silenzi, e caratterizzato da sensibili variazioni luministiche create dal talento di Russell Boyd, direttore della fotografia che ha lavorato con il cineasta australiano da Picnic ad Hanging Rock (1975) a Un anno vissuto pericolosamente (1982).
Le scene di azione pura dentro Master & Commander sono limitatissime: il primo scontro tra la Surprise e l’Acheron, quando la nave inglese subisce ingenti danni, la scena della tempesta in mare di impressionante realismo (creata anche grazie agli effetti della Industrial Light & Magic), e lo scontro finale tra gli uomini di Aubrey e quelli della flotta francese. In questi momenti la grandezza di Weir è quello di stare dentro gli scontri, di fare della macchina da presa un altro corpo nel set. Sembra quasi che i personaggi, il mare, gli oggetti e i luoghi (come le isole Galapagos) si vadano a scontrare con l’obiettivo della cinepresa: primi piani insistiti su volti e dettagli, controcampi rapidissimi, schizzi dell’acqua che si vanno a infrangere contro lo schermo dove, proprio come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, questo costituisce una specie di filtro impermeabile tra il film e lo spettatore.
Weir non organizza la messinscena ma sta dentro la messinscena proprio come Michael Mann e John Milius, proprio con quella propensione a filmare la fisicità e il confronto-scontro tra uomo e natura (tema proprio del cinema di Weir) con quella sublime dispersione nello spazio tipica anche del cinema di John Boorman. Ma, al di là di questo, la specificità di Master & Commander è quella di essere un film smaterializzato, dominato dal mare, dalle nebbie, dai ghiacciai o dalla calura e do- ve anche il suono assume una funzione primaria.
[…] Master & Commander è un’opera che cerca di spingersi oltre, di filmare l’assoluto andando verso territori incontaminati, vergini. Nel cinema di Weir i quattro elementi naturali hanno un’importanza fondamentale: la terra (le Galapagos), l’aria (il vento), il fuoco (i bombardamenti) e soprattutto l’acqua (il mare, la tempesta). Master & Commander, per certi aspetti, comincia dove il film precedente di Weir, The Truman Show, finiva. Se Truman Burbank doveva attraversare il mare con la sua imbarcazione Santa Maria e affrontare una pericolosa tempesta per fuggire dal set in cui era imprigionato, ora il film si apre con un’immagine dall’alto dell’Oceano, che dà sin dall’inizio quella sensazione di estendibilità, di illimitatezza.
Weir passa così dallo spazio finito di The Truman Show allo spazio infinito di Master & Commander. Oltre il mare non c’è quasi nulla. Non c’è un porto, non c’è una città. L’unico territorio nuovo sono le isole Galapagos. E proprio nella sequenza ambientata in quel luogo che il film diventa ancora più imprevedibile. La gestione dell’azione e dei ritmi dell’attesa (i feriti che vengono curati, le cene a tavola, i programmi per sconfiggere l’imbarcazione francese), resta subordinata a un’opera che improvvisamente cambia colore, che passa da quelle tonalità grigie, quasi oscure, a un’illuminazione improvvisamente accesa e opprimente. Weir guarda le Galapagos con l’occhio del documentarista ma con una sensibilità che sembra assumere come modello Flaherty. Esiste un mondo nuovo, incontaminato, con specie di animali mai viste che il dottor Maturin cerca di classificare. Il modo in cui Weir filma le Galapagos è estremamente simile a come rappresentava la giungla del Centro America (tra Panama e il Guatemala). La macchina da presa guarda quello spazio come se fosse la prima volta, ne registra l’interazione con l’uomo civilizzato, ne studia antropologicamente tutte le forme di vita esistenti. Master & Commander è quindi opera che si squarcia, che rivela nuovi mondi, che porta con sé quell’ansia continua della scoperta.