Questa sera su Rai Movie (canale 24) alle 21:10 Millennium - Uomini che odiano le donne di David Fincher, trasposizione cinematografica del primo romanzo della trilogia dello scrittore svedese Stieg Larsson. Il film uscì nelle sale nel 2011, due anni dopo l'adattamento cinematografico svedese del regista Niels Arden Oplev. Ne scriveva su Cineforum 511 Marco Bertolino.
Il Male del Terzo Millennio
La riduzione cinematografica americana del noto romanzo di Stieg Larsson risponde a una precisa e, ahimè, diffusa esigenza commerciale nella Hollywood del secondo millennio, consistente nel “riconfezionamento” di pellicole provenienti dall’Europa o dall’Estremo Oriente per un pubblico che, come quello statunitense, non è generalmente avvezzo a scenari cinematografici che non gli siano familiari. Si sarebbe dunque potuto temere che David Fincher, dopo il trionfo di pubblico e critica tributato a The Social Network, realizzasse un’opera meno riuscita e personale del consueto. La pellicola succitata, invece, ci è parsa talmente “a tesi” da risultare sostanzialmente estranea all’universo del regista di Fight Club, che in questo Uomini che odiano le donne compie invece una nuova incursione nell’inquietante universo dell’omicidio seriale e al tempo stesso effettua uno studio sulle reazioni degli esseri umani faccia a faccia con l’orrore.
Nell’immaginario di Fincher, infatti, i serial killer misteriosi e terribili di Seven e Zodiac sono accomunati al nazista sotto mentite spoglie di L’allievo da un’identica appartenenza al Male assoluto. Come se l’istintuale e perversa natura criminale dei primi non fosse che l’altra faccia della medaglia rispetto all’apologia della violenza e dello sterminio che animano il secondo. Si potrebbe dire che i due assassini seriali di Uomini che odiano le donne costituiscono una summa di tali aspetti: la follia raccapricciante e la brutalità dei loro crimini è accompagnata infatti da un’organizzazione razionale di altissimo livello. Per il padre Gottfried e, ancor più lucidamente, il figlio Martin l’omicidio è la realizzazione di una volontà di potenza tanto più inebriante quanto più evidente la loro superiorità sulla vittima, tanto più eccitante quanto più manifesto il loro potere di vita e di morte.
[…] Piegando la scrittura, secca e giornalistica eppure di indubbia efficacia, del fortunato romanzo di Stieg Larsson alle proprie esigenze stilistiche e tematiche, il regista di Denver, Colorado, realizza l’affresco di una società contemporanea in cui il Male si annida ovunque: nella rispettabilità posticcia di miliardari arricchitisi con attività illegali, nello squallore di viscidi funzionari statali pronti a trarre vantaggio dalla loro posizione, nell’apparente tranquillità di famiglie patriarcali capaci di nascondere nel loro seno terribili segreti.
In un mondo nel quale vige la regola dell’homo homini lupus, domina il diritto del più forte, la ricchezza e il potere piegano la giustizia a loro piacimento, uomini onesti come Mikael Blomkvist sono delle splendide eccezioni, e per questo risplendono di una luce che non investe gli altri personaggi (escluso, forse, quello del vecchio Vanger, per il quale gli autori provano un’evidente simpatia). La sua ossessione per la risoluzione dell’indagine come una sorta di catarsi, che pure mette in gioco la sua stessa vita, è certamente fincheriana – si pensi ai poliziotti di Seven o al giornalista di Zodiac – ma anche dürrenmattiana a livello di ascendenza letteraria; lo è altrettanto, sia detto per inciso, la rappresentazione a tinte fosche della provincia, solo apparentemente quieta e sonnolenta.
Lisbeth Salander, dal canto suo, appartiene a una tipologia ricorrente nella filmografia del regista: quella della creatura femminile forte e determinata che maschera una fragilità interiore, dotata di una personalità così prorompente da “rubare” non di rado la scena anche al suo coprotagonista. Sfuggente e magnetica, dura e solitaria, con un passato terribile alle spalle cui si fa appena accenno, è capace di affezionarsi (innamorarsi?) a Mikael, giungendo persino a salvargli la vita ma facendosi da parte quando realizza l’impossibilità di una relazione piena e autentica con l’unico uomo che le abbia mai concesso piena fiducia, d’altronde già legato sentimentalmente alla direttrice del suo giornale.
Optando per la fedeltà nei confronti del romanzo originale, lo sceneggiatore Steven Zaillian (Hannibal, Gangs of New York) ha creato un palinsesto narrativo perfettamente funzionale che prende vita grazie a una scrittura cinematografica vivace, densa, personale[...].
Per meglio comprendere, però, l’approccio di Zaillian e Fincher al materiale letterario, può risultare utile notare come, nella versione svedese di Uomini che odiano le donne (2009, di Niels Arden Oplev), si enfatizzassero gli aspetti morbosi della vicenda a discapito di quelli psicologici, mentre nella pellicola americana questi ultimi sono invece sviluppati con estrema attenzione alle sfumature comportamentali, con un’attitudine analoga a quella del defunto Stieg Larsson. La creazione del climax, particolarmente in corrispondenza delle scene più ricche di tensione – la violenza sessuale del tutore su Lisbeth, la breve prigionia di Mikael nella cantina delle torture –, non pigia mai l’acceleratore sugli aspetti scabrosi, pur non vergognandosi di esporre la violenza, la brutalità, l’orrore di fronte alla mdp.
Replicando, pur senza farsene imprigionare, la struttura sintattica del romanzo, Fincher compie sin dall’inizio scelte diegetiche molto precise: utilizzo serrato del montaggio alternato, che adotta l’ellissi come cifra stilistica fondamentale; cura maniacale della messinscena, sia a livello luministico che cromatico, in particolar modo nelle scene in interni. Il tutto obbedisce al desiderio di evocare quanto più possibile le cadenze della fonte letteraria prescelta, sviluppando però un immaginario affatto originale. Particolarmente felice, da questo punto di vista, anche la scelta stilistica per la realizzazione dei flashback: inquadrature flou, movimenti soffusi della mdp, suoni ovattati, come persi nel ricordo. La virtuosità fincheriana, lungi dall’essere compiaciuta, si basa invece su una maestria totale del mezzo cinematografico. L’unica nota stonata, forse, è rappresentata dai titoli di testa, più adeguati a un Bond movie: esplicitazione ingannevole dello spirito commerciale del film, oppure omaggio spiritoso a Daniel Craig?