Questa sera su Rai Movie alle 21.10, Mine vaganti di Ferzan Özpetek. Ecco un estratto della recensione che scriveva nel 2010 Pier Maria Bocchi e che puoi leggere per intero su Cineforum 493.
Se ci fosse un premio stagionale per la migliore battuta del cinema italiano, non avrei dubbi: «Siamo nel 2010!», sentenzia un amico di Tommaso, che gli risponde «Appunto, non siamo più nel 2000». Finalmente, all’ottavo film, Özpetek (ma la collaborazione alla sceneggiatura di Cotroneo dev’essere stata determinante) ha capito che la famiglia fa parte del mondo. Alla larga da un’altra famiglia-mondo: quella pugliese di Vincenzo e Stefania è dentro la società, e Tommaso si carica alla fine della responsabilità non comune di rappresentarne un decisivo passo in avanti. Che non è però quello che ci si aspetta dal regista di Le fate ignoranti e da un mercato nostrano la cui più alta e moderna vetta di progressismo di gender è stata conquistata di recente da Diverso da chi? (non una grande conquista, dunque, seppure la commedia di Umberto Carteni funzioni alla perfezione). In un film corale costruito attorno ai coming out di due fratelli alla propria famiglia, uno brusco e inaspettato, l’altro continuamente posticipato, Özpetek dice una cosa che forse non ha mai detto nessuno: rivelare la propria identità sessuale (leggi: gusti) a genitori e parenti può rappresentare un atto di violenza, e perciò, se la situazione lo richiede, si può evitare. Non è una cosa da poco. In epoca di buonismo esagerato e insieme di ritorno a un’omofobia generalmente senza volto e quindi fuori controllo (facce della stessa medaglia), si tratta di una scelta impopolare.
[...] Ma a Özpetek non interessa mostrare l’arretratezza culturale e la penuria di vedute di questa gente, perlomeno non più dello stretto necessario, ciò che basta al genere; gli preme al contrario – e in maniera più seria di quanto ci si potrebbe aspettare – condurre i veri protagonisti (Tommaso e la nonna, nel cui passato giace un segreto sempre taciuto) a una consapevolezza poco consueta ma del tutto plausibile, ovvero ad abbandonare le armi della lotta e a lascia- re che sia la vita di ogni parte in causa a vincere. È un gran bel gesto di generosità e di rispetto, anche per i vecchi e per chi è rimasto indietro; ed è una gran bella sconfitta per gli egoismi e per le isterie di casta, per i bisogni pressanti di ruolo (questi sì vecchiotti, ben prima del 2000) e per i proclami di partito. Si ha però l’impressione che una simile ideologia possa risultare sproporzionata rispetto al Paese in cui viviamo: d’altronde, quando sia da una parte (quella al potere) sia dall’altra (quella delle minoranze) si porta in palmo di mano l’outing come forma indispensabile all’identità, seppure con ragioni diverse, come si fa a capire la necessità occasionale (quindi non generalizzata e regolamentata, dev’essere chiaro) della rinuncia?
[...] Lontano da velleità da commedia di costume, e dunque di critica della società, Mine vaganti è una commedia umana di persone che della società prende atto, senza per forza doverla mettere alla berlina. Con una direzione degli interpreti da manuale (e alla quale molti registi compaesani dovrebbero attingere), un bell’equilibrio di tempi e di toni e dialoghi una volta tanto non offensivi per l’intelligenza dello spettatore (e bando al turpiloquio così tanto di casa oggigiorno, perché anch’esso dovrebbe fare “società”), Özpetek centra il bersaglio di un genere apparentemente minore.