Stasera alle 21:15 su Italia1 Mission: Impossible III terzo capitolo della saga e primo film per il cinema diretto da J.J. Abrams dopo i successi televisivi. La recensione a firma di Andrea Bordoni e Matteo Marino è apparsa su Cineforum 455 del giugno 2006.
Lo sceneggiatore e regista J.J. Abrams ha senza dubbio rigenerato l’immaginario televisivo degli ultimi anni con due serial di eclatante successo di critica e di pubblico.
Lost ha riscattato il cliché dei superstiti che se la devono cavare sull’isola deserta facendoli arrivare dal cielo anziché dal mare e rendendo l’isola una sorta di purgatorio, una terra tra la vita e la morte in cui tutti i personaggi rivivono, con un’intrigante struttura a flashback, colpe e possibilità di redenzione, in attesa di conoscere la forza oscura che sembra averli attirati lì per uno scopo e con matematica ineluttabilità. Alias è il Mission: Impossible dei nostri anni, la serie spionistica che ha portato al parossismo l’escamotage dei finali in sospeso e alla perfezione l’appagamento del colpo di scena che arriva quando te lo immagini ma con proporzioni inimmaginabili. Perciò è parsa a tutti ideale la scelta di affidare la terza avventura cinematografica dell’ormai ex-serie televisiva cult degli anni ’60 a questa promessa mantenuta del piccolo schermo, a perfetto agio con microspie, travestimenti, intercettazioni e tecnologie al confine tra innovazione e fantascienza.
Peccato che qui manchi un elemento fondamentale, alla base invece del consenso ottenuto dalle altre creature di Abrams: una buona e originale caratterizzazione dei personaggi in grado di fidelizzare il pubblico, poco importa se per due ore o per cento puntate. Se infatti una scena d’azione e di suspense può funzionare magnificamente anche senza sapere nulla dei protagonisti (quante emozionanti scene d’apertura in medias res conta il cinema hollywoodiano?), è vero anche che, man mano che la storia si snoda, il crescendo della tensione è proporzionale alla partecipazione dello spettatore, che si ottiene non tanto aumentando l’adrenalina – di certo non è questa a mancare al film di Abrams – quanto presentandogli personaggi talmente ben delineati da avere, quale che sia il tempo a disposizione, una crescita psicologica che li renda degni del nostro affetto e ingeneri il desiderio/bisogno di conoscere il loro destino. Solo così, se si scopre che qualcuno dei buoni è un traditore, ci si sente traditi, e il McGuffin hitchcockiano (il puro pretesto per l’azione, la “Zampa di coniglio” che non importa cosa sia, essendo un esplicito artificio narrativo) può funzionare con dignità per l’ennesima volta. L’intenzione annunciata del produttore Tom Cruise per Mission: Impossible 3 era in effetti quella di realizzare un episodio più umano dei precedenti, in cui il divo che fa a meno della controfigura cedesse spazio ai personaggi di contorno per rendere il film corale. Non basta però un cast interrazziale (un afroamericano, un’hawaiana...) perché i colleghi di Hunt acquistino spessore, e a motivare l’eroe con una storia d’amore complicata dal rapimento ci aveva già provato John Woo nella seconda missione impossibile. Stavolta poi il rapporto tra i due è dato talmente per scontato da non richiedere una sola scena che cancelli l’impressione di estranei che recitino d’amarsi.
Superate le aspettative deluse, c’è da dire che non siamo di fronte a un film senza pregi. Le scene d’azione sono ben congegnate e con un buon ritmo, il bravo Philip Seymour Hoffman conferisce al suo Davian la giusta carica di repulsione di cui deve ammantarsi ogni cattivo con poche battute che si rispetti, e soprattutto la regia ha più di un momento di divertita inventiva (come nell’inseguimento degli eli cotteri tra i mulini eolici le cui pale vanno in frantumi disturbando il pascolo notturno di indifferenti pecore). C’è quindi la tentazione di mantenere il giovane mito di J.J. Abrams e di giustificare il suo esordio cinematografico in gran parte inefficace scaricando la colpa sugli altri due autori del film, Alex Kurtzman e Roberto Orci, che del resto già avevano dimostrato la loro inadeguatezza e la loro propensione al luogo comune con il film The Island.
Si dà il caso, però, che siano stati anche ottimi sceneggiatori di Alias... Che la colpa sia allora di qualcun altro? Del produttore/padrone Tom Cruise? Una cosa è certa: questo blockbuster d’intrattenimento è destinato ad autodistruggersi dalla memoria cinematografica entro cinque secondi dall’uscita dalla sala.