Questa sera su Rai Storia (canale 54) alle 21:10 Momenti di Gloria (Chariots of Fire) di Hugh Hudson, film del 1981, vincitore di quattro premi Oscar (miglior film, migliore sceneggiatura originale, migliori costumi e miglior colonna sonora). Ne scrisse la scheda Ermanno Comuzio su Cineforum 213.
Passato di sfuggita sugli schermi italiani (neppure in tutte le città) nella scorsa estate, dopo l'assegnazione degli Oscar è stato tirato fuori in fretta dai magazzini e ridistribuito. La cosa ci fa piacere perché, se proprio non è un film da Oscar, è senza dubbio un prodotto serio, ben fatto, giocato abilmente, e con un suo impatto spettacolare di tutto rilievo. Buttare via un film cosi è un peccato mortale, da far meritare l'Inferno (molti, fra i commercianti di pellicole, sono destinati a bruciare in eterno).
Quattro Oscar ha meritato (meglio: si è visto attribuire) Momenti di gloria. Miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior musica, migliori costumi. Ora, senza metterlo «contro» altri candidati (non ci uniremo al coro dei critici scandalizzati per la mancata assegnazione a Reds), almeno I'Oscar per il miglior film ci sembra spropositato, pur conoscendo tutti la meccanica dell'assegnazione e il valore che hanno queste benedette statuette.
Lasciamo in un canto questa faccenda degli Oscar, dunque, e consideriamo Momenti di gloria di per sé. È una storia che funziona. Parla di sport, ma in modo tale da attrarre anche chi di sport non se ne intende punto. E la storia (più o meno vera) di due tizi, Harold Abrahams e Eric Liddell, che corrono svelti e che partecipano per i colori della Gran Bretagna alle Olimpiadi di Parigi del 1924, e vincono ciascuno per la propria specialità. Ma la vicenda accoglie nelle sue pieghe diversi motivi interessanti, lasciando stare quelli ovvii tipo «sport metafora della vita» e simili (secondo il produttore, David Puttnam, lo sport sarebbe anche metafora del cinema: i «filmmakers», secondo lui, sono veri e propri atleti, e la vittoria dei due eroi può essere comparata col trionfo di un cineasta che riesce a realizzare il suo film vincendo le difficoltà opposte dalla struttura del cinema come industria). C'è anche, bisogna dirlo, il messaggio romantico: l'ideale del Barone de Coubertin, la fiaccola dello sport disinteressato, il carro di fuoco della vittoria, per sé stessi, per la bandiera, per la religione (per Liddell lo sport è praticato «ad majorem Dei gloriam»). Non per niente il film si intitola nell'originale Chariots of Fire, espressione tratta da un famoso poema visionario del poeta William Blake, Jerusalem, che ha come esergo la massima: «Gli uomini hanno dimenticato che tutte le divinità risiedono nel petto umano» («Bring me my bow, of burning gold / Bring me my arrows of desire / Bring me my spear, oh clouds unfold / Bring me my chariot of fire...»).
Ma c'è anche il motivo della vittoria del singolo sugli spettri del nazionalismo, dell'intolleranza, dell'opportunismo politico. Se Liddell corre per la religione (è figlio di un missionario scozzese e diventerà lui stesso missionario in Cina: morirà nel 1945 prigioniero dei giapponesi), Abrahams (figlio di un ebreo lituano: poi diventerà giornalista sportivo e organizzatore. Morirà nel 1978) lotta perché pur essendo un ebreo «arrivato» sente sempre attorno a sé il pregiudizio ostile degli «ariani» nei suoi confronti, si batte insomma contro il potere del Protestantesimo inglese. Raffrontati agli sportivi d'oggigiorno - oggi che le Olimpiadi sono dominate dalle ragioni dell'opportunismo e del nazionalismo, quando non dalle bombe - appaiono creature d'altri tempi, eppure sono personaggi esemplari proprio perché cosi integri, cosi «fuori tempo». Poi, se vogliamo, c'è anche il motivo del passaggio dal dilettantismo al professionismo sportivo: rivelatrice è la bella scena in cui Abraham è invitato a pranzo dai decani dell'Università di Cambridge (del Caius College, per la precisione) i quali in fondo lo accusano di violare, accettando di farsi allenare da un professionista, i sacri principi dell'amatorismo. Il vecchio e il nuovo sono di fronte; i decani vorrebbero che i loro amministrati (i loro protetti, i loro allievi, i loro figli) si comportassero secondo le vecchie regole, ma le cose si evolvono, cambiano, si adeguano alle nuove esigenze.
Questi temi sono ben calati nella dinamica del racconto. Di dinamica nel film ce n'è senz'altro. Benché sia un debuttante nel campo del lungometraggio, il regista Hudson (classe 1936, già attivo nel campo del documentario e della pubblicità) dimostra di avere polso. La gara di corsa fra i due protagonisti, lungo il perimetro del «college», è ritmata benissimo; cosi come gli allenamenti dei due atleti e le fasi dell'Olimpiade sono raccontati con senso dello spettacolo. È già fin troppo furbo, il Nostro: vedi ad esempio la ruffianeria di far conoscere l'esito della gara (a noi spettatori e all'allenatore di Abrahams, tenutosi in disparte perché di origine straniera e poco considerato, come «professional», dai «gentlemen») attraverso la bandiera inglese che sale sul pennone, vista da lontano. Merito del regista (e del produttore: David Puttnam, quello di l duellanti, di La perdizione, di Lisztomania, di Bugsy Malone, di Fuga di mezzanotte) è anche quello di aver diretto bene attori neofiti e veterani. l due protagonisti sono degli attori finora sconosciuti, che sono stati preparati atleticamente apposta per il film; ma accanto a loro le vecchie glorie formano una corona reale, con John Gielgud e Lindsay Anderson al posto d'onore. Anche Puttnam, il produttore, viene dalla pubblicità, ed ha tenuto a battesimo gente come Ridley Scott e Alan Parker, anche loro ex-pubblicitari. Dice che lavorare nella pubblicità è un «pretty good training» per accaparrarsi l'attenzione del pubblico. Indubbiamente il prodotto Momenti di gloria ha quel che occorre (anche se poi i commercianti che dovrebbero sfruttarne le qualità non sanno sempre fare il loro mestiere).