Questa sera su Paramount Channel, alle 23.30, uno dei capolavori di Martin Scorsese: New York, New York. Ecco un estratto dalla recensione che Giorgio Rinaldi scrisse per il n. 177 di Cineforum nel lontano 1978.
Film musicale? No, almeno se vogliamo conservare nella memoria le leggi di un genere ormai privo di discepoli. Le canzoni e i temi musicali invadono il film, ma rispondono sempre a una necessità narrativa, non poetico-stilistica. Melodramma? Neppure, perché scopertamente il regista vuole rendere un omaggio al musical della sua giovinezza. New York, New York è invece musical e melodramma messi assieme, con una ricetta esclusiva, faticosamente elaborata a tavolino. Ripercorrendo l'America degli anni '40 e '50, Scorsese cita e reinventa i due generi per eccellenza del cinema hollywoodiano, i più astratti e i più lontani da noi: il musical e il melodramma, appunto.
Ma la sua non è soltanto un'operazione necrofila. Il ricorso ai due generi gli è essenziale per discutere ciò che essi nascondono, ciò che sta loro dietro. Al musical l'armonia, l'ottimismo, l'irrealtà, il sogno: l'immagine che l'America vuole proporre di sé stessa. Al melodramma la vita, la storia, i conflitti: l'America per quella che è, o ancora, come esemplarmente ha scritto Roberto Silvestri, «l'alienazione come dimensione sociale che avvolge-coinvolge l'uomo del melodramma, che vive, nel cinema, fin dagli anni postbellici, la fine dell'ideologia americana dell'auto-adempimento, lacerato dalla nevrosi, macchina di desiderio in panne».
Ecco dunque, oltre la necrofilia, il gusto aspro della rottura che si rintraccia in tutto il film: la storia d'amore nasconde la nostalgia delle grandi commedie musicali di Busby Berkeley, ma è offuscata da tensioni modernissime. La giustapposizione dei due generi lacera la tessitura del film: ce lo rende assente, privo di una collocazione temporale. La duplice anima dell'opera si esprime attraverso i due protagonisti. Francine è l'immagine del musical. Il suo rapporto con la vita è semplice, diretto. Sa quel che vuole e come ottenerlo. Il suo personaggio è concepito musicalmente. Si prenda l'esecuzione di The World Goes Round: Jimmy è lontano, Francine è rimasta sola con il suo bambino che dorme nella sala d'incisione. Drammaticamente vive la sua metamorfosi. Scopre che c'è qualcosa in lei che le consentirà d'allevare il figlio senza il marito, che le permetterà di riuscire. Prima aveva avuto paura del successo; adesso sa che lo vuole: dunque lo afferra. L'interpretazione della canzone esprime il suo cambiamento. L'avvio è affidato a una voce rauca e velata; quindi intervengono gli archi; infine la voce riemerge, si afferma, acquista i toni alti.
Jinny è invece l'immagine del melodramma. È ombroso e dominatore. Per lui la carriera passa sopra l'amore, la coppia, il figlio. Allo stesso tempo, teme ogni scelta che possa rivelarsi definitiva. Lo vediamo cosi audace e goffo seduttore con chewing-gum e camicia di un violento blu hawaiano, solitario suonatore di sassofono sotto un lampione acceso, componente drogato di un’orchestrina di neri, artista affermato ma sempre in preda alla sua inquietudine. Scorsese tuttavia non si arresta a ricostruire mentalmente la sua New York e analizzare, attraverso i due generi cinematografici che reinventa, quell'American way of life che musical e melodramma si trascinano dietro, ma opera un discorso di demistificazione nei riguardi dello spettatore. Distrugge il valore della convenzione: il genere – sostiene – il prodotto di un tacito accordo tra pubblico e autore, ma un linguaggio che il secondo impone al primo.
Eccolo dunque, polemicamente e/o provocatoriamente, assegnare al musical la tensione del melodramma e al melodramma la geometria e la freddezza del musical. Pertanto filma la story, con il suo reperto- rio di baci, piccole complicità ma anche conflitti e separazioni, come tanti interludi, mentre affida ai numeri musicali l'intensità delle passioni, la violenza dei contrasti, l'evoluzione delle psicologia. [...]