Stasera su TV8 alle 21:25 Noah il colossal biblico di Darren Aronofsky del 2014. Ecco cosa ne scriveva Simone Emiliani su Cineforum 534 ai tempi dell'uscita in sala.
In viaggio nel tempo. Aronofsky predicatore come in L’albero della vita? No, Noah è tutta un’altra cosa. Forse questo è il suo vero “teorema del delirio”, dove l’impianto blockbuster glielo fa scappare totalmente di mano e trascina il suo cinema in mezzo alla tempesta. Avventura epica di un cinema che non si era mai spinto oltre la soglia, che si affida agli artifici cromatici di Matthew Libatique anche per degli stordenti effetti videoclip. E l’impianto teorico, composto da apparizioni che sembrano quasi un ibrido sperimentale (il serpente, l’acqua che spunta dalla terra, gli alberi), dall’idea di ripopolare il set da zero («In principio era il nulla») che in tutta la prima parte teneva questa “visione” della Genesi forse trattenuta, a un certo punto esplode.
Dove tutto ebbe inizio. E dove tutto potrebbe finire. Noè che non crede più nell’umanità, che pensa che l’esistenza debba finire con lui e il suo unico scopo è salvare gli animali. Così è il cinema di Aronofsky. Kolossal tormentato da centotrenta milioni di dollari con le polemiche che hanno anticipato e accompagnato la sua uscita, vietato nei paesi musulmani e osteggiato anche dai fondamentalisti cristiani, porta i segni di un film sofferto.
E se anche il cinema di Aronofsky fino a ora non fosse mai esistito? E ripartisse, anzi partisse da qui, annullando tutta la sua filmografia precedente? Impresa titanica, impossibile, ma forse per questo bellissima. Sì, certo si può anche ripartire da L’albero della vita, l’ultimo film scritto dal regista prima di questo (anche lì in coppia con Ari Handel) proprio per vedere la differenza tra l’esempio perfetto dell’applicazione del “metodo Aronofsky”, dove la dimensione barocca è calcolata al millesimo e il controllo della dimensione dello spazio e del tempo è assoluta, e la “messa in crisi” di quel modello. Dove la visione stavolta sfugge dall’occhio.
E se Noah fosse un film in/compiuto? Un maestoso progetto non finito, che forse aveva bisogno di altri tempi rispetto ai centotrentotto minuti di durata, di altre dimensioni kolossal? Oppure avrebbe potuto anche rischiare di essere uno di quei progetti che si interrompono per non vedere mai la luce. Aronofsky nella sua carriera forse ha sempre avuto il desiderio di realizzare dei blockbuster, ma poi ha sempre avuto paura di farli. Forse c’era bisogno di un’ulteriore svolta in un tipo di cinema comunque abbastanza inafferrabile, spesso diseguale, dove molte volte la sua traccia appare fin troppo invadente, tranne nel caso dell’ottimo The Wrestler in cui sembrava annullarsi dietro a Mickey Rourke.
In Noah le cose stanno molto diversamente. Stavolta lo sguardo del cineasta statunitense non si annulla, anzi è sempre fin troppo presente nel guardare, per tutta la prima parte, quello che filma, come se fosse un’apparizione improvvisa, un’immagine che si forma proprio sotto l’occhio dello spettatore, come avveniva soprattutto in Requiem for a Dream. Quasi come i miracoli di una nuova nascita dell’universo, quasi come le benedizioni magiche del Matusalemme di Anthony Hopkins. E comunque in tutta la prima parte del film c’è tutta la paura e insieme il desiderio del regista di confrontarsi con il blockbuster. Ed è proprio il suo tentativo di controllo in un genere che non sembra appartenergli che diventa motivo di sottile seduzione.
Poi, dal momento della tempesta, Noah esplode. Aronofsky va verso il futuro ma si immerge anche nel cinema mitologico passato. Va nelle zone di Il pianeta delle scimmie, ma in realtà forse il regista gira la sua Bibbia come fece John Huston nel 1966. Con un’ambizione smisurata ma anche cercando di realizzare il proprio sogno impossibile. Dove la caduta può essere dietro l’angolo; e rimettere in discussione un’intera carriera e il percorso fatto fino a questo momento. Invece al botteghino, come si è visto, i risultati gli stanno dando ragione. Ma non è tutto: in Noah Aronofsky è riuscito nell’impresa, davvero titanica, di coniugare la sua idea di cinema, il suo stile visivo, con un notevole senso dello spettacolo. Nelle scene di massa, nel mostrare uno spazio vuoto che all’improvviso diventa sovrappopolato, nel far diventare protagonisti gli elementi naturali (l’acqua soprattutto), il regista ha dato l’idea di aver creato un perfetto equilibrio, proprio perché sembra essere sempre sul punto di perderlo. Una “personalizzazione”
così marcata, nelle zone del blockbuster, l’hanno fatta in pochissimi, da Cameron a Nolan. Noè come l’ultimo immortale: che con il bel film di Russell Mulcahy del 1986 con Christopher Lambert condivide il tempo di non ritorno, l’inevitabilità e la possibilità di vedere la fine propria e delle persone che gli stanno incontro.
Qui l’acqua fagocita tutto, manda il film fuori controllo. Ed entrano in gioco due ulteriori elementi. Il primo è la follia del protagonista, simile a quella di Mickey Rourke in The Wrestler o della madre della protagonista in Il cigno nero. In più, questa pazzia è ancora connessa al contesto familiare, sia come paura di perdita sia come tentativo di dominio dell’altro. Noè che dà fuoco alla zattera del figlio Sem che sta scappando con Ila è uno di quei colpi martellanti che appartengono al suo cinema migliore, quello capace di mostrare le tracce di un’instabilità malata senza però per questo diventare claustrofobico. La sua ossessività stavolta esce “fuori dalla mente”, si attacca su Russell Crowe nel modo in cui si arrampica sulle scale o quando cerca le figlie di Sem e Ila per ucciderle. E qui, come in Titanic, la spettacolarità diventa trasparente al melodramma più incontrollato, quello che riesce ad andare oltre la gestualità (cosa che invece non era riuscita a Il cigno nero) proprio perché lo sguardo di Aronofsky è come magicamente invasato. Noè che getta il coltello davanti alle bambine è uno degli squarci mélo più inattesi. E per questo più sorprendenti, capaci di catturarti senza preavviso, un momento pieno di dolore, con una pace che sembra sempre provvisoria e fughe laceranti. Il miracolo di ipnotizzare, stavolta, Aronofsky l’ha fatto con Noah, un film che ha rischiato più volte la deriva e invece riemerge ogni volta dalle proprie ceneri. E non si vorrebbe che finisse mai.