Questa sera su Canale 5 (HD 505) alle 21:10 San Andreas di Brad Peyton, film catastrofico del 2015 recensito per il sito da Pier Maria Bocchi. Riportiamo qui quanto scrisse all'uscita del film.
Se c’è una cosa che la critica dovrebbe fare, o almeno dovrebbe tentare di fare, spesso, non sempre, però il più delle volte, è un po’ di scienza. Altrimenti è sempre di più un esercizio sprecato. Poco importa che al lettore-tipo serva altro, serva la bella fotografia, i bravi attori, il bel copione: la critica è anche l’invenzione di un discorso coeso, è l’intervento del singolo dentro un dialogo fra film e film, nella speranza – talora ingiustificata, è bene ammetterlo – di costruire dei ponti colloquiali per un immaginario specifico. La critica insomma è anche la realizzazione di un’idea.
Non serve a niente e a nessuno dire che San Andreas è un film cretino, che ha interpreti impresentabili, che ha dialoghi scemi, che è una specie di prodotto SyFy alla Sharknado però coi soldi. Fatti i dovuti distinguo, sarebbe come continuare a giudicare i film di Woody Allen in base alla quantità di battute. E allora che cos’è, San Andreas? È un prodotto hollywoodiano pienamente de-autorializzato che, suo malgrado o forse no, è capace di parlare dei sentimenti di un intero Paese come meglio non si potrebbe. È il film giusto al momento giusto, per evidenziare paure e fiducie di una società e di una cultura egemoni che contemplano il presente e il futuro cancellando il passato e la memoria del passato (altro che disaster movie vecchio stile!) per ripartire da zero e confidando nella propria perfezione etica. «Ricostruiremo tutto!», proclama Dwayne Johnson davanti allo sventolamento della bandiera a stelle e strisce. Tutto ciò non a dispetto di ma grazie a grattacieli che crollano e tsunami che travolgono.
È proprio lì, nel continuo saliscendi delle proporzioni, nell’inseguirsi e nel rigenerarsi di un basso e alto e di nuovo basso e ancora alto, nel godimento ambiguo della distruzione di una mappatura pubblica, che San Andreas trova una ragione contemporanea ideale nel contesto di un capitale che prima si abbatte (a partire dalle lettere che lo identificano e celebrano dalle colline di Los Angeles, capital letters: HOLLYWOOD) e subito dopo si fa rinascere dalle sue stesse macerie.
Il terremoto è lo strumento utile per re-dimensionare un’idea e un pensiero dell’impero, ovvero ricondurre alle dimensioni legittime un mondo che si ha il terrore possa franare da un momento all’altro (ognuno può riflettere sulle cause che preferisce, dallo scioglimento dei ghiacciai all’Isis). Il gigantismo esposto - ben più di 9 sulla Scala Richter, quasi il massimo! – adopera la perfezione dei pixel come forma di estrema limpidezza del visibile per chiarire nella maniera più assoluta e definitiva l’archetipo di una civiltà che si fa da sola. E come in Cloverfield, di cui il film di Brad Peyton è l’aggiornamento o addirittura una specie di remake-reboot, l’America è esclusivamente una questione di misure: la misura di un corpo (molto opportunamente, Alexandra Daddario entra in scena in bikini), di una patria, di una famiglia e del familismo suggerito, la misura di uno spirito e di un sogno eroico-individualistici e contemporaneamente comunitari, la misura infine di un dovere morale e della virtuosità di un popolo, del cittadino, oltre ogni divinità possibile, oltre qualunque sacralità che non appartenga al noi più concreto.
Evidentemente c’è ancora bisogno di un cinema post-9/11 perché evidentemente l’angoscia della fine, della fine di sé e del proprio immaginario esclusivo, non è sparita, ma anzi è aumentata per l’appunto a dismisura, fuori misura. Per una merce egemonica che invoca la chiamata alle armi nel nome di una chiesa dell’uniformità futuristica (Tomorrowland), ce n’è un’altra che sceglie la rovina pressoché totale per rimarcare la propria capacità superomistica della rifondazione. Come a dire: più si distrugge, più i modelli acquistano fondatezza. E più si distrugge, più si produce.