Questa sera, alle 21.20, su Rete 4, un classico del cinema americano contemporaneo: Seven, che nel 1995 impose il nome e il talento di David Fincher. Siamo andati a recuperare la recensione che Leonardo Gandini scrisse sul numero 351 di Cineforum.
La natura allegorica di Seven è data non soltanto dai riferimenti a Dante e Chaucer, che ne costituiscono semplicemente l'espressione più evidente e riconoscibile: tutto il film è costruito su una serie di elementi generici e indeterminati, volutamente stereotipati, ma proprio per questo dotati di un forte valore emblematico.
I personaggi, ad esempio: un killer che si chiama John Doe, come, da sempre, l'americano qualunque, e una coppia di poliziotti in cui si riflettono i due grandi modelli attraverso i quali, nel cinema e nella letteratura di genere, è stato caratterizzato il detective urbano: l'investigatore esperto, alle soglie della vecchiaia, sul quale tanti anni di professione hanno lasciato una patina di disillusione e disgusto, che sceglie la chiusura rispetto al mondo come istintiva difesa di fronte ai suoi orrori; e l'ispettore di polizia giovane, prestante e irruente, appena arrivato in città, sorretto dalla ferma convinzione che un po' di dinamismo è sufficiente a rimettere in ordine il mondo, ma ingenuo al punto da non capire nemmeno che il suo agente immobiliare gli sta affittando un appartamento che è un bidone (e la vibrazione provocata dal passaggio della metropolitana suona, a posteriori, come un sinistro presagio della sciagura che spazzerà via la famiglia Milis; così come altrettanto premonitore – in questo film dove nulla è casuale – appare la presenza dei cani, simbolo di morte sin dai tempi dell'antico Egitto, che il poliziotto non a caso chiama "bambini").
Altrettanto esemplari, rispetto alla letteratura di genere e non, sono i rapporti fra i tre protagonisti. Doe infatti personifica evidentemente, come nei migliori noir, la dark side dei due agenti, rappresenta una sorta di iperbole mefistofelica delle loro inclinazioni: la sfiducia verso l'umanità e il palese disprezzo per i suoi eccessi che sono tipici di Somerset da una parte, l'aggressività di Milis dall'altra. Nello stesso tempo, il rapporto fra i due poliziotti obbedisce a una delle regole fondamentali della parabola morale che vede un maestro e un allievo intraprendere insieme un viaggio che ha, per il secondo, valore iniziatico.
Non è per caso, dunque, che Milis, appena giunto in città, finisce in coppia con un collega tanto più esperto e amareggiato di lui, che prima, come il pazzo che Zarathustra incontra «alla porta della grande città», cerca di scoraggiarlo («Oh, Zarathustra, qui è la grande città: qui nulla hai da cercare e tutto da perdere... Non senti già l'odore dei macelli e delle bettole dello spirito? Non esala questa città miasmi di spirito macellato?... Sputa sulla grande città che è la grande cloaca dove tutta la feccia si raduna schiumeggiante!»), e poi, infine, acconsente suo malgrado a fargli da Virgilio, ovvero a guidarlo attraverso la "selva oscura" della metropoli.
Già, ma quale metropoli? Anche in questo caso, sarebbe stato un errore imperdonabile localizzarla geograficamente, darle un'identità, un nome. È chiaro che l'allievo e la sua guida attraversano non una città qualsiasi, ma “la” città dei moralisti, crogiolo di vizi e di corruzione, livida nelle luci e nell'animo, la cui putrida decadenza è talmente scontata da non richiedere nemmeno più una descrizione: a differenza di quanto avviene in Strange Days, in questa “grande cloaca” non vediamo nulla di eticamente riprovevole (teppisti, ubriachi, drogati): i marcio è già tutto nelle espressioni di disgusto con cui Doe e Somerset parlano della "gente" e della loro vita.
D'altra parte, come in ogni racconto morale che si rispetti, la condanna del peccato non si esprime tanto attraverso la sua raffigurazione, quanto nella rap- presentazione delle punizioni che attendono i peccatori. Sotto questo punto di vista, la mirabile organizzazione scenagrafica degli ambienti dove il serial killer ha colpito fa sì che questi rappresentino un perfetto esempio di allegoria nell'allegoria: quadri di grande potenza figurativa, gelide ed eleganti composizioni sul tema del castigo, mute ma eloquenti testimonianze sul tremendo destino che attende i viziosi. Il fatto che le diverse scene del delitto vengano dapprima inquadrate con insistenza, poi riprese nelle foto che Milis e Somerset portano con sè, infine trasformate in oggetto di continua discussione tra i due poliziotti, che sperano di ricavare dalla loro analisi qualche indizio, la dice lunga sulla loro centralità narrativa, figurativa, tematica. Gli spazi dell'omicidio hanno, in Seven, il medesimo ruolo dei gironi infernali nella Commedia dantesca: offrono all'autore una splendida opportunità per dispiegare tutto il suo talento figurativo e, al tempo stesso, costituiscono il corollario più importante (e inquietante) del discorso morale.