Questa sera su La5, alle 23.20 (e non fatevi fuorviare dal canale, che di solito non programma propriamente capolavori), un piccolo grande film del regista polacco-inglese Pawel Pawlikowski (che anni dopo avrebbe diretto Ida): Summer of Love, con una giovanissima Emily Blunt. Ecco un estratto dalla recensione che Michele Marangi scrisse per il n. 447 di Cineforum, quando il film uscì nel 2005.
L’avvio è folgorante: una ragazza dai lunghi capelli rossi sta disegnando un ritratto direttamente sul ruvido muro di una stanza in cui è sola. Il montaggio nervoso, i tagli sempre differenti delle inquadrature, il rumore dei gesti sul muro, la sensazione che da un momento all’altro possa ferirsi le mani. Solo due colori: il rosso per la cornice, il nero per il volto femminile che prende lentamente forma. Finita l’opera, la giovane autrice si avvicina e bacia il ritratto. Il tutto mentre la voce eterea di Alison Goldfrapp racconta emozioni d’amore in Lovely Head: «It starts in my belly / Then up to my heart / Into my mouth / I can’t keep it shut / Do you recognize the smell? / Is that how you tell / Us apart?».
Energia e sentimento, fisicità e passionalità, pancia e cuore. Immagini che colpiscono subito l’occhio, ma anche una sottile suspense che pervade lo spettatore, che coglie l’idea di un affetto, ma non può ancora capire come stiano esattamente le cose, non conosce né il contesto, né i personaggi, né gli elementi di una storia.
[…] Piuttosto, fin dal primo impatto con il film, appare evidente la scelta programmatica di affidarsi completamente alle immagini e ai suoni per proiettare lo spettatore in un’atmosfera narrativa particolare, in cui le sensazioni soggetti- ve contano più delle descrizioni oggetti- ve, gli sguardi e i gesti hanno spesso più peso delle parole, i colori sono più importanti della forme.
Questa fiducia nelle immagini sembra il marchio di fabbrica di Pawlikowski – nato in Polonia ma inglese d’adozione – unita al tentativo continuo di rielaborarle facendole scontrare tra loro, oppure proponendo punti di vista inaspettati o creando continuità a partire non dal significato principale ma da altri elementi apparentemente secondari: un colore, un oggetto, una forma. Lo aveva dimostrato già nel 1992, come documentarista, con Serbian Epics, presentato al Festival dei Popoli di Firenze, racconto del nazionalismo serbo: girato praticamente senza alcuna voce commentativa, tutto affidato alle immagini dei riti di massa, delle feste collettive che rinsaldavano i vincoli con il passato attraverso i canti tradizionali, degli stessi canti in bocca ai soldati al fronte.
Anche il suo primo film di fiction, Last Resort – visto fugacemente da noi nell’estate del 2002, due anni dopo l’uscita britannica – manteneva la dialettica tra sguardo sociologico e studio psicologico, con una notevole cura visiva della composizione e una spiccata capacità di esprimere i significati più profondi a partire dai corpi dei personaggi e degli edifici, dal vuoto di paesaggi e degli sguardi. La storia di una giovane russa con figlio, che si ritrova costretta chiedere asilo politico poiché al suo arrivo in Inghilterra non trova il fidanzato promesso e resta confinata nella terra di nessuno di un centro di ospitalità inquietante, diventa in soli settanta minuti uno spaccato straordinario sulle contraddizioni dei flussi migratori e delle politiche che tentano di catalogarli e controllarli, riflettendo viceversa sulla dimensione umana del fenomeno, oltre ogni luogo comune e stereotipo.
La digressione non ha alcuna vocazione enciclopedica, ma tenta di esplicitare meglio che My Summer of Love, votato miglior film britannico della stagione al Bafta, non può essere del tutto compre- so se non lo si inserisce in un approccio autoriale forte. Pawlikowski, a prescindere dalla singola storia raccontata o dal genere di riferimento, fa un cinema che vive soprattutto nella ricerca di una narrazione audiovisiva in cui spesso gli elementi a margine contano più di quelli centrali, in cui le digressioni sono funzionali ad un’economia di racconto che affronta sì un tema forte – l’immigrazione nel film precedente, la crescita adolescenziale in questo – ma non rinuncia ad inserire ulteriori tracce di sviluppo, che talvolta possono apparire dispersi- ve, ma alla resa dei conti sostanziano ulteriormente un preciso sguardo sul mondo e sulle sue contraddizioni. Ed è proprio lo sguardo il senso che viene immediatamente e costantemente stimolato nel film, inteso sia in riferimento alla dimensione estetica, che in rapporto ad un approccio conoscitivo e non solamente contemplativo.
Non appare quindi casuale che un volto incorniciato e visto attraverso gli occhi del cuore apra il film, né che la storia prenda avvio da una folgorazione visiva: la soggettiva di Mona che, riversa nell’erba, vede per la prima volta Tamsin a cavallo da un angolazione capovolta e fortemente verticale. In questa scelta estetica non c’è tanto l’idea calligrafica di creare un’immagine strana e affascinante, ma piuttosto la sorpresa di Mona, come se stesse sognando, di fronte a una creatura che appare fuori dal tempo. Ma c’è anche la prefigurazione dei rapporti gerarchici tra le due ragazze, che sono pure rapporti di classe.