Questa sera su Rai4 (canale 21) alle 22:55 il secondo lungometraggio di Giuseppe Gagliardi: Tatanka, tratto dal racconto di Roberto Saviano «Tatanka skatenato» (ne La bellezza e l'inferno). Una storia di pugilato, sul cui ring combatti, uno contro uno. Non ci sono altre possibilità e nessun'altra mediazione. Ne scriveva Lorenzo Rossi su Cineforum 504.
Racconta Roberto Saviano, nel suo articolo «Tatanka skatenato», pubblicato da «l’Espresso», che il leggendario pugile statunitense Joe Frazier, nel 1975, quando incontrò Muhammad Alì per la terza volta, arrivato alla quindicesima ripresa, allo stremo delle forze, pesto, sanguinante, mentalmente incapace di ragionare e vedendo l’avversario nelle medesime, se non peggiori condizioni, decise, in un momento di lucidità, una volta capito che entrambi erano in pericolo di vita, di gettare lui per primo la spugna. Perdendo incontro e titolo mondiale. Spiegando la propria scelta alla stampa sportiva Frazier disse che in fondo – in certe circostanze – non c’è bisogno di trovare troppe motivazioni. Dentro di te lo sai sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato. Come nota Saviano: «Frazier aveva citato Immanuel Kant e non lo sapeva».
Probabilmente la frase di Joe Frazier riassume più di ogni altra l’essenza del pugilato. Sport nobile, epico e autentico (nonostante i tentativi di inquinamento), sport antico, dalle regole semplici e crudeli eppure tanto complesso, tecnico e articolato, difficile da praticare e interpretare. Ma è una frase, quella di Frazier, che dice molto anche sul ruolo sociale, pubblico e morale della boxe. E ci dice qualcosa anche sul ruolo del pugilato nel cinema.
In fondo anche il film di Gagliardi trae spunto dalla saggezza da bassifondi di Smoking Joe. In fondo anche Tatanka, ispirandosi all’articolo di Saviano, racconta una storia di buoni e cattivi; di fallimento, redenzione e riscatto, come tante storie cinematografiche nelle quali la boxe è protagonista. E lo fa bene soprattutto nella prima parte, quando attraverso la messa in campo di una serie di contrapposizioni e contraddizioni – anche abbastanza didascaliche per la verità – riesce a trovare un modo comunque efficace per raccontare l’essenza di una parte d’Italia dove non esiste Stato e dove non esistono alternative a esso. Esiste solo la Camorra. Clemente Russo, pugile nato a Marcianise, provincia casertana, interpreta Michele, uno della Campania, uno di lì, uno dei tanti; detto Tatanka (come i bufali di Balla coi lupi) che di Russo è il vero nome di battaglia, e quindi interpreta anche un po’ se stesso, dando risalto alla sua storia. La storia di uno che ce l’ha fatta, che se ne è andato, che ha conquistato qualcosa. E non è poco. Ma la storia di Michele – che è frutto della finzione, occorre sottolinearlo –, si diceva, si regge, com’è tipico delle sceneggiature drammatiche, su una messa in campo continua di contrapposizioni e conflitti. Il protagonista si trova sin da subito immerso in un mondo nel quale i buoni e i cattivi si confondono gli uni con gli altri (come nelle sequenze iniziali con la polizia) e dove le scelte diventano importanti e complicate.
È qui che il film si rifà in maniera più diretta all’articolo di Saviano, ed è qui che la drammaticità della storia riesce a trovare un’efficacia narrativa convincente. La scelta di essere un pugile, che per Michele avviene per caso, è in realtà, oltre che il momento che segna definitivamente la sua vita, il punto nodale della nostra storia. Perché lo sport in generale, ma la boxe in particolare, per uno nato nel regno di Gomorra, è più che uno strumento di riscatto, più che un insegnamento di vita, è un modo di essere che ti si cuce addosso e non si stacca più. Diventare un pugile per Michele non è soltanto il mezzo per formare il fisico, il carattere o il coraggio. Non è un modo per diventare uomo. In fondo anche la mafia fa presa sulle giovani menti con le medesime promesse.
Come sottolinea Saviano, quando un ragazzo di quindici o vent’anni impara a ottenere le cose solo tramite il sudore, la fatica e i pugni in faccia arriva a un punto in cui la via facile non gli interessa più, arriva un momento in cui rinunciare alla Camorra non è più una scommessa o un caso fortuito, è una scelta consapevole e nemmeno tanto difficile. Proprio come diceva Smoking Joe: non è un fatto di motivazioni, dentro di te lo sai cosa è giusto e cosa non lo è. Forse anche la Maggie Fitzgerald di Million Dollar Baby avrebbe sottoscritto. Certamente lo avrebbe fatto l’ultimo Rocky Balboa e come lui tantissimi altri pugili del grande schermo. In fondo, tutti loro, come Frazier e come Tatanka, Kant forse non lo conoscono, ma, aggiungiamo noi, non ne hanno nemmeno bisogno.