Questa sera alle 22.35, su Rai Movie, The Aviator di Martin Scorsese, biografia di Howard Hughes, celebre miliardario americano che fu anche aviatore e regista. Ambientato nella Hollywood degli anni d'oro, un biopic controverso che ha forse bisogno di essere rivalutato. Riproponiamo alcuni passaggi della recensione che Fabrizio Tassi scrisse sul n. 442 di Cineforum (marzo 2005).
Ancora il sogno americano. E l’incubo, naturalmente. Ancora un “Citizen Kane”. Un “cittadino” che ha vissuto i suoi anni migliori nei migliori anni di Hollywood, lo specchio dell’American Dream, l’industria e l’arte della sua rappresentazione di sé.
Siamo negli anni ’30 e ’40, tra la donna di platino Jean Harlow e La vita è meravigliosa, tra i grandi registi classici (Hawks, Ford, Cukor, Capra, Lubitsch, Walsh) e il divismo più scintillante (nomi che fanno girare la testa: era il tempo di Greta Garbo, Bette Davis e Claudette Colbert, di Clark Gable, Gary Cooper e Cary Grant), tra il gangster film, i primi noir, la maturità di Chaplin, Via col vento e la nascita dell’officina Disney, la fabbrica multimediale del divertimento e dell’ottimismo pedagogico.
Ma The Aviator non è un’altra puntata del Viaggio personale con Martin Scorsese nel cinema americano. È troppo astratto e allo stesso tempo troppo concreto. Si concentra sui dettagli della messinscena con furore kubrickiano, ma poi taglia, scivola via, semplifica senza ritegno, tra parentesi aneddotiche e cloni caricaturali (i divi e le dive). Il suo scopo sembra quello di costruire un mondo di fantasmi, di apparizioni, di cristallizzazioni della memoria cinematografica, per poi ritagliare su questa superficie, quasi in rilievo, l’unico corpo che appaia davvero vivo, in carne e mito, quello di Hughes/Di Caprio.
La sua presenza fisica, la sua realtà allucinatoria, spiccano in virtù di quella fragilità che è l’altra faccia della sua volontà di potenza, la sentiamo davvero quando il personaggio Hughes arriva al limite che lo separa dall’uomo Hughes, nel punto in cui l’ideale di grandezza, il furore attivista, il “mito della frontiera” (che ha fondato una nazione e alimentato la psiche collettiva americana) si scontrano con la realtà, e le nevrosi non bastano più ad arginare il caos, l’insensatezza delle cose.
[...] Scorsese traduce quel limite affidandosi ai sensi deformanti di Hughes, e alle sue nevrosi performanti, con stacchi ravvicinati e virtuosismi di montaggio, primissimi piani e dettagli, accelerazioni e ralenty, amplificando i rumori, esagerando le luci, come se lo guardassimo attraverso una lente di ingrandimento, mentre i flash gli esplodono in faccia (il mondo lo vuole divorare, come le fiamme che bruciano il suo corpo dopo l’incidente aereo), mentre i riflettori sembrano quasi volerlo smaterializzare, ridurlo a fenomeno astratto (da baraccone), oggetto del circo mediatico (la martellante voce fuori campo dei cine-radiogiornali), nuovo simbolo eccessivo dello spirito americano vero (questa infatti è anche la storia di un corpo che lotta per esistere, un corpo attraversato, posseduto, dalle immagini di quei film che sono anche le sue ossessioni interiori).
E queste parentesi di verità allucinata sono ancora più significative perché esplodono dentro un film che è tanti film messi insieme sotto la “tutela estetica” di un classicismo mimetico impressionante, con un gran gioco di luci (la cruda “key light”, la “fill” morbida e laterale, l’illusionistica “back light”, i chiaroscuri accentuati…), con il solito determinante contributo di Dante Ferretti, con gli effetti speciali “dolci” di Robert Legato (quello del Titanic, che ama unire effetti fisici, ottici e digitali, e come scrive Ian Christie su «Sight & Sound» «è interessato più che altro alla psicologia dell’illusione, il che lo lega ai maghi-pionieri del cinema delle origini»).
[…] Scorsese si è trovato di fronte a un film-progetto di Leonardo Di Caprio, a una modesta sceneggiatura di John Logan, alla necessità imbarazzante di mettere in scena miti come Katharine Hepburn, Ava Gardner, Errol Flynn, e ne ha ricavato un film non su Howard Hughes, ma sulla sua febbre mentale, così platealmente americana, come il cinema che lo accompagna e che Scorsese si ingegna ad omaggiare, lasciandolo però come un sottofondo (Katharine Hepburn, Ava Gardner, Errol Flynn sono esagerati, così esemplari da diventare fasulli) su cui far emergere l’uomo, il mito e il simbolo. È come nel film Hell’s Angels: il movimento degli aerei non si vede se non ci sono le nuvole sullo sfondo, su cui misurarne la velocità; l’uomo-simbolo Hughes non si vedrebbe senza quelle belle statuine di contorno.